L’eredità (bruciata) di Trump

Cesare

De Carlo

We will be back in some form, torneremo in qualche modo, dice Trump prima di lasciare Washington. Già ma quando? In quale forma e con quale prospettiva? Nemmeno lui crede in un ritorno come candidato repubblicano fra quattro anni. Non per l’età. Avrebbe gli anni che ora ha Biden. Non per la lunga e futile ossessione nel denunciare brogli difficili o impossibili da dimostrare. Non infine per la consapevolezza di essere sempre rimasto un alieno, un nemico dell’establishment elitista-economico-mediale che a sorpresa nel 2016 aveva sconfitto e che lo ha massacrato. A non volerlo è il suo stesso partito. I capi storici lo hanno scaricato. Persino Mitch McConnel, leader in Senato, che non esclude di votare la condanna dopo l’impeachment.

Due i motivi. Il primo: l’assalto al Congresso lo ha reso non più viable, accettabile. Né fra due anni alle elezioni di medio termine, né tanto meno fra quattro per la Casa Bianca. Il secondo: il timore che lanci un suo partito che romperebbe il fronte repubblicano. Accadde due volte con Ross Perot. E due volte vinse Bill Clinton. Eppure la sua eredità politica non è affatto male se l’erraticità e la sgradevolezza rimproverategli non oscurano il bilancio dei tre anni preCovid.

Crescita fra il 3 e il 4 per cento, disoccupazione al 3,4, Wall Street e fiducia al massimo. E ancora: sconfitta dell’Isis in Medio Oriente, trattati di pace fra Israele e una mezza dozzina di Paesi arabi, Iran nell’angolo, contenimento dell’alluvione commerciale della Cina. Poi esattamente un anno fa dalla Cina è arrivato il virus. Una rielezione certa è diventata incerta, anzi improbabile. Quel virus è stato devastante. Ha trasformato la frustrazione in rabbia. E la rabbia in violenza contro il tempio della democrazia. Trump almeno inizialmente l’ha cavalcata. E come il Riccardo III di Shakespeare, per quel cavallo ha sacrificato la sua eredità. In un’ora ha bruciato tre anni. ([email protected])