Kiev va difesa usando anche la diplomazia

Gabriele

Canè

È possibile che ci sia addirittura tra Russia e Ucraina. O tra Cremlino e Casa Bianca. Così come è certo che la Turchia resta un crocevia importante, e la Cina preferisce gli affari ai cannoni. Insomma, se diplomazia c’è, ed è al lavoro, è probabile, anzi certo, che si tratta di un filo sottile che rischia di spezzarsi ogni giorno su un ponte fatto saltare, su un convoglio di civili bombardato, su migliaia di ragazzi che non torneranno più a casa. Un filo che proprio per delicatezza e fragilità non viene portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Eppure, un dopo può e deve esserci. Banalità, direte. Ovvio. Ogni guerra ha sempre avuto una fine. Un esito su cui in questo caso, non sembra però che si stia lavorando come si dovrebbe. Intendiamoci. Qui non si parla e non si può parlare di pace, tantomeno di "pace subito" che significherebbe solo il riconoscimento che l’invasione russa, i territori occupati, sono cosa fatta, acquisita, irreversibile. Una carta che giocano solo le belle anime "neutre", che poi tanto neutre non sono visto che fanno il tifo per un risultato che piace solo a Mosca. Inaccettabile. Non si parla nemmeno di un dopo Putin, improbabile, rischioso, su cui volano i falchi, come quelli di Kiev che sognano di bivaccare sulla Piazza Rossa. Si parla di ora, con questi protagonisti, di risultati possibili, di armi che tacciono. Si parla di aprire la bottega in cui si possa costruire un tavolo. Per fare quello rettangolare a cui sedettero dal 1970 al ‘72 a Parigi le parti in guerra nel Vietnam, ci vollero mesi. Ci lavorò soprattutto Kissinger, che non a caso ha fatto risentire la sua voce. Qualcuno ora dovrà prendere chiodi e martello. L’Europa? Forse, se vorrà esistere. La Casa Bianca? Soprattutto. Biden dice, contraddice. Tattica? Speriamo. La guerra non può trasformarsi in pace. Le armi hanno ancora fame. Fino a quando? A quel filo, però, bisogna lavorare adesso.