Giovedì 18 Aprile 2024

"I bimbi stranieri sanno il dialetto: la cittadinanza cancella i ghetti"

Lo scrittore Affinati sullo Ius scholae: "È un antidoto a gang e bullismo. Sentendosi scartati dall’Italia, questi ragazzi finiscono per cavalcare l’identità d’origine"

Una lezione all'aperto di una scuola elementare (Ansa)

Una lezione all'aperto di una scuola elementare (Ansa)

"Parlando con questi ragazzi ci si accorge c he loro si sentono già italiani in ogni senso. Il problema è che non lo sono giuridicamente ed è questa la stortura che va sanata". Eraldo Affinati, scrittore e fondatore della Penny Wirton, scuola di italiano gratuita per migranti, rinnova il suo appello affinché lo Ius Scholae – la legge che consentirebbe a circa 280mila alunni stranieri di ottenere la cittadinanza italiana dopo 5 anni scuola nel nostro Paese – sia approvato entro la fine della legislatura.

Secondo il Rapporto annuale dell’Istat il 78,5% degli alunni stranieri delle scuole secondarie pensa in italiano e tre ragazzi su quattro parlano e leggono ‘molto bene’ la nostra lingua. La sua esperienza conferma tali dati?

"Stiamo parlando di ragazzi che sono già sostanzialmente italiani. Sono ragazzi nati in Italia da genitori immigrati o che sono arrivati nel nostro Paese da piccoli, prima dei 12 anni. Bambini e adolescenti che pensano, scrivono e parlano nella nostra lingua con tanto di inflessioni dialettali".

C’è chi parla di ‘cittadinanza facile’. La frequentazione scolastica è un requisito sufficiente?

"La scuola in più garantisce a questi ragazzi una formazione non solo culturale, ma anche sociale, antropologica. La scuola non è soltanto prendere un diploma ma è anche occasione di incontro e di scambio. Significa integrare nel rapporto con gli altri coetanei questi bambini e adolescenti".

Che valore ha per questi ragazzi ricevere la cittadinanza italiana?

"Averla, per molti, significherebbe ratificare una situazione di fatto già esistente. Alla base dello Ius Scholae vi è l’idea di un’accoglienza non indiscriminata ma giusta. È un fatto di civiltà che dovrebbe essere accettato in maniera trasversale. La questione non dovrebbe essere strumentalizzata politicamente".

E non averla?

"Sulla base della mia esperienza di docente, non averla significa rischiare l’emarginazione all’interno del gruppo di coetanei, avere problemi nella partecipazione alle gite all’estero. Insomma, non essere considerati pari agli altri".

Alcune rivendicazioni culturali estreme, come il fenomeno delle gang, possono scaturire proprio dal sentirsi rifiutati dal Paese in cui si vive?

"È esattamente così. Queste rivendicazioni identitarie sono il frutto del fenomeno di emarginazione che questi ragazzi vivono sulla loro pelle proprio in quanto non sono riconosciuti come italiani. L’adolescente reagisce a questa condizione ancorandosi all’identità di provenienza".

Dunque, lo Ius Scholae potrebbe limitare l’insorgere di tali fenomeni?

"Dando lo Ius Scholae andremmo a sanare queste situazioni. Anche i recenti episodi dei bulli e dei molestatori di Peschiera del Garda dimostrano proprio questo: non dando la cittadinanza condanni al ghetto questi adolescenti. Nel momento in cui si sentono rifiutati, scartati, emarginati, i ragazzi cavalcano la propria identità per crearsi una personalità quando questa è ancora in formazione. Non hanno niente e si attaccano a qualsiasi bandiera. Lo Ius Scholae andrebbe a risolvere alla radice un problema di questo tipo".

Cosa pensa della proposta di elevare da 5 a 8 gli anni di scuola necessaria?

"Dal mio punto di vista potrebbe essere una mediazione accettabile per arrivare a una soluzione positiva. Il problema è solo politico. Se guardi i ragazzi in faccia, stai tutti i giorni con loro, ti accorgi che è veramente un discorso unicamente di strategie politiche sulla pelle delle persone. E questa è la cosa peggiore".