Iran, la rivolta diventa mondiale Calciatori in silenzio durante l’inno Fischi e lacrime: i tifosi si dividono

Il capitano della nazionale aveva annunciato la protesta in Qatar: "Dobbiamo essere la voce del nostro popolo". Il tecnico Queiroz: "Chi non sostiene i miei ragazzi stia a casa". E spuntano cartelli per la libertà delle donne

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di Viviana Ponchia

Muti, immobili, quasi costernati. Risuonano le note che inneggiano alla "continua ed eterna Repubblica Islamica dell’Iran" e la nazionale in rosso si rifiuta di cantare per protesta contro il regime. E mentre una donna iraniana viene inquadrata mentre applaude e piange sugli spalti, mentre il pubblico si divide fra chi fischia i calciatori immobili e chi alza cartelli come "Women life freedom", diventa definitivamente chiaro che questi strani mondiali in bilico su una pentola a pressione faranno la storia. Milleottocento chilometri separano il Qatar dall’Iran, 23 ore di auto fra deserto e Golfo Persico. Ma tutto può accadere già qui perché fin qui è arrivato il fantasma di Masha Amini, uccisa dalla polizia per una ciocca di capelli sfuggita dal velo. I sei gol presi dall’Inghilterra sono dettagli irrilevanti, come l’incongruenza e l’ipocrisia del contesto. C’è da fare la rivoluzione e il "Team Melli" contribuisce come può restando a bocca chiusa con la consapevolezza che ognuno, tornato a casa, risponderà personalmente al regime. In inglese con la parola "momentum" si indica lo slancio delle cose che non si possono più fermare. Baci per strada, turbanti che volano, atlete che affidano lo sdegno a una coda di cavallo. Anche la stella Sardar Azmoun, attaccante del Bayer Leverkusen, si è sbilanciato su Instagram: essere cacciato dalla nazionale, ha scritto, "sarebbe un piccolo prezzo da pagare rispetto anche a un solo capello delle donne iraniane".

A Teheran continuano gli arresti e gli omicidi della "polizia morale" ma in parallelo dilaga l’onda della scomunica popolare. È chiaro a tutti che questa è l’ora di portare la battaglia su un altro livello. Dentro uno stadio lontano, per strada, appena possibile. Domenica aveva fatto la sua parte Ehsan Hajsafi, capitano della nazionale iraniana. In conferenza stampa, con gli occhi del mondo addosso, ha lasciato perdere le tattiche di quel gioco lì che si fa con il pallone. Ha parlato invece "nel nome del Dio dell’arcobaleno", citando il piccolo Kian Pirfalak simbolo della repressione costata 400 morti e 15 mila arresti. Ha annunciato lo sciopero dell’inno, inviato le condoglianze alle famiglie di chi ha perso la vita: "Noi siamo qui ma questo non vuol dire che non dobbiamo essere la loro voce. La situazione nel Paese non è buona. La nostra gente non è contenta". E il tecnico dell’Iran, il portoghese Carlos Queiroz, ha difeso i suoi ragazzi: "Chi non vuole supportare questi ragazzi, dovrebbe restare a casa. Abbiamo le nostre opinioni e le esprimiamo quando pensiamo sia giusto".