Giovedì 18 Aprile 2024

"Io musa di Newton, algida solo nelle foto. La vita in passerella? Un bellissimo bluff"

Intervista a Simonetta Gianfelici. A 57 anni la supermodella romana ripercorre la sua carriera. Ha lavorato per i più grandi stilisti fino a diventare un’icona di stile "Non mi sento irraggiungibile. La moda mi ha dato indipendenza ed esperienze straordinarie, ma ho visto e vedo tante ragazze fallire"

Simonetta Gianfelici nel famoso servizio fotografico di Helmut Newton

Simonetta Gianfelici nel famoso servizio fotografico di Helmut Newton

"La mia vita in passerella? È stata tutta una commedia, un gioco, un grande bluff. Ho recitato una parte: guardo indietro e mi sembra la storia di un’altra". Se lo dice lei, sarà così. Però Simonetta Gianfelici, nata a Roma nel 1963, ha segnato la storia della moda. È stata una delle mannequin più note, richieste e pagate degli anni ‘80. Vanity Fair l’ha definita: Diva forever. Non c’è stato stilista (tranne uno) che non l’abbia voluta. E i più grandi fotografi hanno fatto a gara per immortalarla. Era bellissima e affascinante allora, è bellissima e affascinante adesso. Un’icona di stile.

Gianfelici, si sente una predestinata?

"Ho cominciato a 17 anni per scherzo. Facevo il liceo artistico e già questo aveva creato problemi in casa. È una scuola anarchica, predicava mio padre. Figuriamoci quando l’insegnante di architettura mi ha detto: cercano una come te per un servizio di moda. Risposi sì senza pensarci".

I suoi non volevano?

"Vengo da una famiglia semplice e rigorosa. Mio padre fornaio, la mamma baby sitter a Bologna, nonni contadini e poi mezzadri. Se andavo bene a scuola la frase era: hai fatto solo la metà del tuo. Anche dopo anni, credo che non avessero capito bene che mestiere facevo".

Come andò quel primo servizio?

"Divertentissimo. Sfilavo in abito da sposa con Paola Dominguin, figlia del torero e di Lucia Bosè, la sorella di Miguel".

Ci prese gusto?

"Non credevo di avere stoffa, ero timida e inconsapevole. Alta un metro e ottanta ma tutto lì. La fotografa Alberta Tiburzi costruì su di me un personaggio. Ha voluto che la mia immagine trasmettesse una severità interiore: caratteristica reale, che deriva però solo dal mio perfezionismo. Non sono né altera, né algida, né irraggiungibile. Quell’allure però funzionava".

Nell’82 fece un servizio memorabile.

"Uscì su Vogue France a novembre, il mese dopo in Italia. Dietro l’obiettivo c’era un genio: Helmut Newton".

Vuole raccontare?

"Scattò immagini di grande sensualità, morbose, feticiste eppure romantiche secondo il suo stile. Eravamo Arielle Burgelin e io: due opposti, impersonavamo la povera e la ricca. Arielle era una bellezza carnale, siamo diventate amiche. Lei ora è una cantante dalla voce meravigliosa".

Temeva gli scatti scandalosi di Newton?

"Era un burattinaio, capace di tirarti fuori qualcosa in più. Al di là del suo immaginario erotico, riconosceva in anticipo sui tempi un formidabile potere alle donne: nel suo mondo gli uomini non esistevano".

Parigi l’ha eletta Cavaliere di arti e lettere, nell’89 si è diplomata all’Istituto superiore della fotografia: chi considera un maestro dell’obiettivo?

"Lista lunga, complicato scegliere. Gian Paolo Barbieri, artista sensibile e signore vero. Bruce Weber, Paolo Roversi. E Peter Lindbergh: ho il rammarico di aver posato per lui ai suoi esordi francesi, non nel periodo della maturità".

Parliamo degli uomini e le donne che l’hanno vestita. Un aggettivo per ciascuno: Valentino?

"L’equilibrio, il senso della proporzione. Come Ferrè del resto: un perfezionista".

Vivianne Westwood?

"Combattente rivoluzionaria".

Gaultier?

"Un giocatore ironico e brillante".

Versace?

"Lui e Gucci mi ricordano un periodo lontano e piacevole. Facevamo sfilate itineranti, ero il pulcino del gruppo. Si viveva in comitiva. Una volta a Monaco abbiamo passato la notte nelle camere d’albergo a cucire i vestiti per la festa di Carnevale dell’indomani. Finita la tournée ci regalavano gli abiti".

E poi c’è Armani...

"No, Armani non c’è. Non ero abbastanza androgina per lui. Ma me ne sono fatta una ragione".

Chi è l’indossatrice più grande?

"Veruschka è stata la modella del secolo. Nessun dubbio".

Non è Naomi? E dove mette Linda Evangelista, la Schiffer, Gisele Bundchen, Iman, Cindy Crawford e le altre top?

"Sono celebrità che danno un valore aggiunto alla passerella. Ma le fanno ombra. L’immagine fotografica oggi è diventata potentissima, mentre le sfilate somigliano spesso a una rappresentazione liturgica senza un’idea".

Che cosa le ha dato la moda?

"Ho visto centinaia di ragazze provarci e fallire. Io ho avuto libertà e indipendenza economica, oltre alla possibilità di viaggiare e conoscere persone straordinarie. Ho soddisfatto il mio narcisismo. È stata un mezzo più che un fine".

La vita oltre le sfilate: come si è scoperta attrice?

"Il teatro è una sfida con me stessa, placa la continua ansia da prestazione. Non sono un’attrice ma in passerella ho imparato a interpretare un ruolo, capacità che è tornata utile sul palco".

Però nasconde uno scheletro nell’armadio: il cinema.

(ride) "Confesso. Nell’88 ho girato il film Delitti e profumi con Jerry Calà e Smaila. Un cult di serie C. L’hanno ridato molte volte in tv, più di Pret a porter di Altman in cui interpretavo me stessa".

Come l’è venuto in mente?

"Ero sotto choc per un incidente aereo, mi ero rintanata in casa: è stata l’opportunità per uscire dal guscio. Ero amata dai macchinisti. L’addetto alle luci mi diceva in romanesco: il difetto tuo sono gli occhi, uno più bello dell’altro, nun sai che te farebbe".

Lo rifarebbe?

"Una regina come Jerry Hall, ex moglie di Mik Jagger, ha girato Topo Galileo con Beppe Grillo. A ciascuna il suo scheletro".

Da 15 anni si è inventata talent scout di giovani stilisti. Il progetto si chiama: ’Chi è il prossimo?’ Insegnare ai ragazzi non dev’essere facile.

"Chiedo di essere determinati, sorprendenti, appassionati. Li spingo a coltivare le contaminazioni. Spiego che più dell’ispirazione conta la traspirazione, cioè il lavoro duro. Perciò mi indignano gli allievi dell’Accademia: tante possibilità, nessuna curiosità".

Come definisce il talento?

"Deriva dal greco tàlanton, ovvero piatto della bilancia e somma di denaro. Per gli ateniesi corrispondeva a 20 chili d’argento: tanta ricchezza uguale tanta responsabilità".

Il tempo che passa la scalfisce?

"Mi accorgo che è volato, anche se mi sento addosso 35 anni. Ho fatto errori, perso treni, a volte non sono neppure arrivata in stazione. Però sono sempre in cerca di qualcosa di nuovo, odio andare a dormire, non mi fermo mai. Vivo il presente per non rimpiangerlo domani".

Il suo difetto?

"L’ansia di avere tutto sotto controllo e far bene ogni cosa, come da origine marchigiana. Queste sono le mie radici vere, tanto che sono diventata testimonial di Camerino".

La sua vita privata è gelosamente custodita: vive sulla Cassia con il cane Tina. Ha un partner?

"Ora finalmente mi sento di dirlo: nel 2018 mi sono unita civilmente alla compagna con cui ho condiviso gli ultimi 22 anni. Non è stato facile elaborare la mia omosessualità".

Nessun amore maschile?

"Alcuni importanti. Ma cercavo un complice, un compagno di vita: schema difficile da comporre con un uomo, oltre gli stereotipi dei ruoli. Ho fatto soffrire, eppure non mi sento colpevole".

Posso chiederle come fa a essere sempre bella?

"Rivedendo le foto di qualche anno fa penso: però, non ero male. La bellezza è uno strumento che bisogna saper suonare. Non mi sono resa conto fino in fondo di possederla, spero almeno di averle dimostrato gratitudine".

Riuscirebbe a vivere da sola?

"Mai. Ho bisogno del contatto con gli altri. E di una persona che guardandomi negli occhi sussurri il sonetto di Shakespeare: mai vecchia per me tu non sarai".

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