"Io, l’ultimo prestigiatore dei rumori. I miei suoni danno anima al cinema"

L’artista racconta mezzo secolo di storia in sala: a volte è difficile, il clacson per Il sorpasso l’ho trovato dopo due giorni. "Un tempo i compensi li decidevamo noi anche davanti a produttori come Dino De Laurentiis e i Cecchi Gori. Ferreri il regista preferito".

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"Il cigolio di una porta si fa con la forchetta, per i tuoni serve una lamiera. L’effetto pioggia lo ottengo accarezzando la sabbia su un piano di plexiglas. Facile no?". Sergio Basili, 76 anni, romano, è l’ultimo rumorista del cinema italiano. Guardando un film non ci si bada, ma provate ad astrarvi dalla trama e dalla recitazione: ascoltate i suoni, realizzati in sala di registrazione. Quei suoni li fa lui da mezzo secolo.

Come ha cominciato?

"Bazzicavo il mondo del cinema e così provai a fare l’assistente operatore. Durò due giorni, non era per me. Entrai però nello stabilimento di doppiaggio: nei film americani, registrati in presa diretta, mancavano sempre dei piccoli rumori. Così mi chiesero: fammi una porta, fammi una poggiata di bicchiere. Era divertente".

Era bravo?

"Ci provavo. Questo lavoro mi conquistò immediatamente. Grazie a un uomo che guardavo con reverenza e attenzione massima, un vero genio".

Chi era?

"Si chiamava Tonino Caciuottolo, il maestro. Ha inventato lui il mestiere del rumorista. Si presentava in studio con una valigia: dentro c’erano gli oggetti più strani. Gli attrezzi di un mago, un prestigiatore".

E lei?

"Ero affascinato. Quando entrava in azione era uno spettacolo: poteva riprodurre tutti i rumori. Mentre lo guardavo in saletta, solitario, al buio, pensavo: e questo che fa, come fa? Ho cercato di rubargli i segreti. A poco a poco ha cominciato ad affidarmi delle cosette, rumori secondari che davano comunque corpo alle immagini".

E così un po’ alla volta anche lei è diventato un uomo con la valigia?

"Proprio così. È il bagaglio di un artigiano ma anche di un artista: ci sono i trucchi accumulati in una vita. Sembrano i giochi di un bambino".

Facciamo qualche rumore?

"Se c’è un gangster spacca-ossa, bisogna spezzare un gambo di sedano: il crack è perfetto. Per una testa fracassata, il cavolo cappuccio è meglio del cocomero. I passi che affondano nella neve sono le mani passate su fecola di patate e sale. Gli zoccoli dei cavalli? Si battono su un piano di legno due mezze noci di cocco. Per ogni evenienza ti porti dietro piatti, tazzine, guantoni, catene, pattini a rotelle. E scarpe: da uomo, con i tacchi alti, le ballerine, scarponi militari".

Le risse western nel saloon?

"Dipende. Colpisci un petto di pollo o un quarto di bue, a seconda della violenza richiesta. E poi c’è la soluzione Caciuottolo".

Cioè?

"Il famoso pugno con gemito. Il rumorista tira un cazzotto contro una poltrona e simultaneamente emette un lamento soffocato. L’effetto è di un realismo straordinario. Gli americani sono impazziti quando l’hanno scoperto".

Meglio che un suono autentico?

"Davanti al microfono, un fuoco si sente poco. Devi creare un suono finto se vuoi che sia vero: se spiegazzi un foglio di plastica lo ottieni".

Che rapporto c’è tra il rumorista e l’attore che segue sul monitor?

"È come diventare amici. Prendiamo la camminata di Montalbano: un passo particolare, aritmico. Sempre lo stesso tac tac ma diverso. Se poi Zingaretti nel film cammina con un altro devi differenziare i passi. Ci ho messo tempo per trovare la sincronia, ma adesso Montalbano sono io".

Un altro attore che sente vicino?

"Era bello fare Tomas Milian, il mitico Er monnezza: camminava saltellando, mica facile. Oggi c’è l’ispettore Coliandro, ovvero Giampiero Morelli: uno molto simpatico. So come si muove, mi ci ritrovo".

E il rapporto con i registi? Con chi ha lavorato?

"Faccio prima a dire quelli con cui non ho lavorato. In saletta mi è passata davanti la storia del cinema. Visconti, Bertolucci, i Taviani, Bellocchio... venivano tutti a vedere come lavoravo. Qualcuno chiedeva effetti particolari ma in genere ci si conosceva bene e c’era un rapporto di fiducia. Monicelli era molto serio. A Fellini invece piaceva giocare: si metteva lì e faceva i suoi disegnini. Però era precisissimo, sapeva quel che voleva. Se Amarcord è un capolavoro lo deve anche a Renato Marinelli, l’altro grande rumorista di Cinecittà".

Ci sono rumori che restano nella memoria collettiva?

"Il clacson per Il sorpasso di Risi. Ci ho messo due giorni a trovarlo, mettendo insieme campionature diverse".

Che ricordo ha di Sergio Leone?

"Esigente, scrupoloso. E del resto Morricone ha riempito di invenzioni la colonna sonora dei suoi film. Sono stato il suo secondo rumorista ne Il buono, il brutto e il cattivo".

Chi ha amato di più?

"Ferreri. Siamo diventati amici subito. Avevo 24 anni, facevo i rumori per i documentari di Folco Quilici e nel ‘69 mi trovai a sonorizzare Dillinger è morto, film difficile. Ma nel ‘73 La grande abbuffata fu uno spasso. Arrivai a Parigi con due valigie di carabattole e gli spaghetti numero 5 che lui preferiva. Attraversai la strada al semaforo, Ferreri mi aspettava dall’altra parte: le valigie sciaguratamente si aprirono e tutti gli attrezzi invasero la carreggiata. Traffico impazzito, accorsero i poliziotti e Ferreri scappò via fingendo di non conoscermi".

La grande abbuffata è un film sul cibo...

"C’è una scena importante girata attorno a una torta. Ferreri me ne fece trovare sul tavolino una uguale: usa questa, si raccomandò. La buttai via: una torta in faccia fa ciaf ciaf, con il giornale bagnato viene meglio".

In quanti film ha lavorato?

"Saranno almeno 1.200, comprese le commedie sexy. Se la gente sapesse come si fabbricavano i suoni della Fenech nella doccia... fruscii, strofinamenti. Tutto fatto da me in studio".

E per i suoni impossibili da ricreare?

"Dovunque vado mi porto dietro il registratore. Le cicale, il mare, l’erba: nessun suono è uguale a se stesso. E il mio udito percepisce suoni che gli altri non sentono".

Com’è un buon rumorista?

"Deve avere orecchio, musicalità, cervello, pazienza, umiltà. E grande passione".

I giovani ce l’hanno?

"Poco. Vogliono arrivare subito, senza gavetta e senza qualità. La prima cosa che chiedono è: quanto si prende?".

Lei quanto guadagna?

"Benino, ma non sono più le cifre di una volta. Trent’anni fa, uno bravo prendeva 450mila lire per un turno di tre ore. Il prezzo lo facevamo noi anche davanti a produttori del calibro di Dino De Laurentiis e i Cecchi Gori".

Com’è il mestiere oggi? Si sente un superstite?

"È cambiato tutto. Certi registi giovani non sanno neppure che esistiamo. Prima eravamo dei rigattieri, dei trovarobe che lavoravano con le mani. Poi è arrivata la moviola: effetti sonori sincronizzati, ma comunque si toccava la pellicola. Oggi c’è la digitalizzazione. Il computer però non ha la finezza dell’uomo".

Faccia un esempio.

"Roma di Cuaron, che ha vinto non so quanti Oscar. C’è tanta acqua, un effetto particolarmente difficile. E a una festa in villa: per i passi degli invitati sul vecchio parquet serviva un suono simile a una corda di violino, come fai a crearlo al computer? Noi inventiamo".

Si diverte ancora?

"Certo. È bello lavorare in squadra. Abbiamo fatto i rumori per la serie tv dell’Amica geniale, a un certo punto c’è un pranzo con i crostacei. Eravamo spiazzati. Poi l’idea: abbiamo comprato un astice e l’abbiamo cucinato con gli spaghetti. Una gran mangiata e il rumore servito".

Nessun rimpianto, nessuna malinconia?

"Quando ti accorgi che non sei valorizzato: siamo i parenti poveri dei doppiatori. Ma resta la magia della sala di registrazione, nel silenzio assoluto, trattenendo il respiro. Il mio mestiere non si vede: si sente".

 

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