Mercoledì 24 Aprile 2024

Remuzzi: "Covid e zona rossa? Un rebus. Se arrivasse un nuovo virus ancora impreparati"

Intervista al direttore dell’Istituto Mario Negri dopo l'inchiesta: "Ero favorevole, ma non so dire se sarebbe cambiato qualcosa"

"Più che cercare un colpevole bisognerebbe andare alla radice del problema: per 20 anni la sanità pubblica in Italia e in Lombardia è stata depauperata, e non è cambiato nulla. Se domani dovesse arrivare un nuovo virus saremmo ancora al punto di partenza". Il prof Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, tre anni dopo l’inizio della pandemia parla di "un’occasione persa" per costruire un sistema sanitario adeguato per affrontare nuove emergenze che "inevitabilmente verranno".

Giuseppe Remuzzi, farmacologo
Giuseppe Remuzzi, farmacologo

Tornando con la memoria a quel periodo, fra febbraio e marzo 2020, alla luce delle conoscenze a disposizione della comunità scientifica, sono stati commessi degli errori?

"L’Oms ha aspettato fino al 31 gennaio a dichiarare l’allerta globale, e da parte della Cina c’è stato un grave ritardo nel comunicare le conoscenze acquisite. Ricordo, però, che il 14 gennaio The Lancet pubblicò uno studio dello pneumologo Bin Cao che descriveva tutto. Un dossier ignorato o sottovalutato dagli scienziati occidentali, che avrebbe consentito di avere 4 settimane in più per prepararci meglio. Invece tutto il mondo è stato colto di sorpresa".

I politici, all’epoca, avevano elementi sufficienti per prendere decisioni?

"Gli errori sono dovuti a mancanza di conoscenze. Non ho mai visto, come in quel periodo, una comunità scientifica così impegnata nel cercare di raccogliere informazioni. I politici, però, non possono farsi scudo della scienza. Devono ascoltare la scienza, ma poi prendere le decisioni in maniera autonoma, tenendo conto di tutti i fattori in gioco. Non si può chiedere agli scienziati di prendere delle decisioni che spettano ai politici. Il Cts era composto da persone competenti, in grado di trasmettere tutte le scarse informazioni raccolte in quel periodo".

L’istituzione di una zona rossa ad Alzano e Nembro avrebbe salvato vite umane?

"Non voglio entrare in questioni giudiziarie, capisco che la decisione sulla zona rossa era di estrema complessità. All’epoca ero favorevole a misure più restrittive, e resto della stessa opinione. Sarebbe cambiato qualcosa? Questo non lo so, anche perché il virus circolava già da dicembre".

Quanto pesava, all’epoca, la preoccupazione per le ripercussioni sull’economia delle misure restrittive?

"È un aspetto che non è di competenza degli scienziati, ma i politici non possono non tener conto dei rischi sociali o di un incremento della povertà legato a lockdown prolungati. D’altra parte non può esserci una contrapposizione fra salute ed economia".

Il piano pandemico non era stato aggiornato. È indicativo di una sottovalutazione dei rischi?

"La radice del problema non è il piano pandemico, ma il depauperamento del sistema sanitario pubblico andato avanti per vent’anni. E questa è una responsabilità della politica. Lasciare la sanità in mano ai privati, come succede in Lombardia, è molto pericoloso".

La lezione è servita?

"Per ora non è servita a nulla, purtroppo la situazione è peggiorata perché, ad esempio, il pronto soccorso d’emergenza è stato appaltato a cooperative private. Il Pnrr è un’occasione per cambiare rotta, ma non sono ottimista".

Da bergamasco, quale ricordo resta di quelle prime fasi della pandemia?

"Ricevevamo telefonate di persone che piangevano, i medici non sapevano cosa fare, era una situazione drammatica. Fra le persone è rimasto un sentimento di rabbia, che porta alla ricerca di un colpevole, e anche di gratitudine verso i medici. E ci si è resi conto, finalmente, dell’importanza delle cure verso gli anziani".