Mercoledì 17 Aprile 2024

Dino Meneghin e Milano: "Il dinamismo di questa città mi ha dato la forza di andare sempre a canestro"

Una vita da gigante non solo del basket. "Dalla finestra della mia mansarda mi affacciavo sul Castello alla ricerca di una dama misteriosa" di Massimiliano Chiavarone

Dino Meneghin

Dino Meneghin

Milano, 30 novembre 2014 -  «Se vuoi andare a 100 all'ora devi stare a Milano». Lo racconta il campione di pallacanestro Dino Meneghin.

Cosa fa, cita Gianni Morandi? Sì, non voglio scomodare la storia della canzone italiana, ma rende bene l'idea. Nella mia vita ho corso tanto sui campi di basket e se ho fatto migliaia di volte canestro lo devo anche a Milano.

Lei però è di Varese? Naturalizzato varesotto. Sono nato ad Alano di Piave, in provincia di Belluno. Quando avevo otto anni, mio padre decise di trasferire la famiglia a Varese perché era stato nominato direttore di una fabbrica di occhiali del posto. Ho incrociato la pallacanestro per caso a 12 anni. Ero già alto 1 metro e 75. Poi da adulto ho raggiunto i 2,06. Una volta, nella palestra della scuola media, un professore di educazione fisica, Nico Messina, che era anche allenatore della squadra giovanile della Ignis di Varese, mi vide fare qualche tiro e mi intimò: domani torna alla stessa ora, perché ci dobbiamo allenare. Quel pomeriggio mia madre mi comprò un bellissimo paio di scarpe da basket di colore rosso. Il giorno dopo all'allenamento, il prof. mi disse: è tutto ok, tranne le scarpe. Erano dello stessa tinta, simbolo della loro squadra rivale, l'Olimpia di Milano.

Un destino, dunque, visto che lei poi è stato una delle stelle di questa squadra? Sì, senza dubbio. Sono entrato nell'Olimpia di Milano a 30 anni suonati, quando pensavo di smettere. Invece la famiglia Gabetti, proprietaria del team, volle prendermi. Cominciò un decennio d'oro, vinsi tutto quello che potevo vincere. Per questo devo anche ringraziare il coach, Dan Peterson.

Erano le prime volte che veniva a Milano? No. C'ero già stato a 15 anni, sempre per un'occasione sportiva. La tappa fu il Palalido di Piazzale Lotto. Era la prima volta che giocavo in serie B.

Poi venne più spesso in città? Sì, dopo il diploma da Geometra, quando mi iscrissi ad Architettura. Ma era il periodo delle occupazioni, spesso le lezioni saltavano. Quando non riuscivo a seguire i miei corsi, andavo ad ascoltare le lezioni di Filosofia, almeno non perdevo la mattinata.

Spirito pragmatico, molto meneghino. Dunque abbondonò gli studi? Sì, la carriera sportiva mi assorbì del tutto. A 19 anni ero già giocatore titolare in Nazionale. Ho disputato 28 campionati in serie A. Il primo quando avevo 16 anni. E poi tante conquiste tra cui un argento alle Olimpiadi di Mosca nel 1980 e il mio nome che figura nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, uno dei più importanti riconoscimenti della pallacanestro mondiale.

Insomma tanti premi, tra cui un Oscar alla carriera. Mai un brutto ricordo? Sì, uno ce l'ho: non essere riuscito a giocare per la leggendaria NBA, la più importante lega professionistica di pallacanestro, quella che raccoglie gli atleti migliori del mondo. Avrei dovuto fare un provino per loro a New York nel luglio del 1974, ma due mesi prima mi fratturai il menisco sinistro. E purtroppo era un treno che non poteva più ripassare.

Almeno una piccola consolazione la ricava passeggiando a Milano? Sì, soprattutto in Piazza Castello. Mi piace per il carico di storia che contiene. Ho abitato in questa zona per cinque anni, dal 1985 al 1990. Vivevo in un appartamento mansardato, era la mia oasi di pace, senza il rumore delle partite, del tifo, degli spogliatoi. Ogni volta che vedevo il parco dalle finestre, uscivo di casa. La scusa era portare fuori Lola, il mio pastore tedesco di allora. Può sembrare buffo, ma quando attraversavo il parco pensavo alla vita del passato, con le dame, i cavalieri, i cani da caccia, che percorrevano questa enorme distesa di verde che ai tempi arrivava fino al Duomo. Qualche volta immaginavo di vedere anche una dama affacciarsi da una finestra del Castello. Parlavano anche di un fantasma, ma io ho solo fantasticato, non ho mai visto nulla di strano.

Però una soddisfazione ce la deve togliere. Ci racconta un aneddoto del suo periodo nell'Olimpia di Milano con Dan Peterson? Dan è stato un allenatore straordinario. Umanamente sapeva essere molto simpatico, ma anche duro. Una delle sue caratteristiche è la parsimonia. Per cui, durante gli allenamenti se Dan diceva: do 5 mila lire a chi vince, noi cercavamo di giocare al meglio. Non tanto per il risultato, quanto per vedergli finalmente sborsare i "cinque sacchi". 

di Massimiliano Chiavarone [email protected]