Martedì 16 Aprile 2024

Bassetti (Cei): "Mare Nostrum, basta tragedie. La vita merita rispetto"

L’appello della Chiesa alla comunità internazionale. E il cardinale sprona: "Oltre a salvare, fondamentale integrare i migranti"

Il presidente della Cei, cardinal Gualtiero Bassetti

Il presidente della Cei, cardinal Gualtiero Bassetti

Il riscatto del Mediterraneo parte dalla culla del Rinascimento. Dall’incontro a Firenze, in agenda dal 23 al 27 febbraio, fra i vescovi  e i sindaci dei Paesi che si affacciano sul Mare nostrum, squassato da venti di guerra e camposanto d’acqua per centinaia di migranti in fuga da fame e conflitti dimenticati . Un’iniziativa all’insegna della pace e della promozione umana fortemente voluta dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenze episcopale italiana.

Vescovi e sindaci del Mediterraneo, la Città di Dio e quella degli uomini a confronto nel segno di La Pira: con quali speranze e prospettive? "Sono due incontri distinti, entrambi ispirati dalla figura e dall’azione di Giorgio La Pira, che culmineranno in una riflessione comune nella giornata di sabato, in attesa dell’arrivo di papa Francesco domenica 27 febbraio. I vescovi porteranno a Firenze l’esperienza di comunità cristiane che vivono la loro comunione ecclesiale come germe dell’unità dell’intera famiglia umana: una storia di liturgia, teologia, vita cristiana vissuta e orientata alla pace e alla fraternità nel segno profetico, così chiaro a La Pira, sancito dal Concilio Vaticano II e dalla ’Fratelli tutti’ di Francesco. I circa cento sindaci mediterranei che hanno risposto all’invito del loro collega di Firenze, Dario Nardella, saranno voce di comunità provate dalla pandemia, dalla crisi economica e da quella migratoria; presenteranno il volto di città ancora caratterizzate dalle macerie delle guerre, avendo negli occhi i bisogni di bambini, giovani, anziani. Sono certo che matureranno insieme propositi e proposte di vita, di benessere economico e spirituale. Tutti, vescovi e sindaci, saremo coinvolti. In una parola, tutti ci sentiremo impegnati a far crescere segni di speranza".

La pandemia sembra aver assorbito in questi anni tutte le problematiche: avverte un’indifferenza crescente nei confronti del destino dei migranti che continuano a perdere la vita in fondo al mare? "Senza dubbio la pandemia ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica nel corso di questi due anni, mettendo in ombra tante altre questioni sociali come l’immigrazione. Questo non significa, però, che i migranti non siano più arrivati sulle nostre coste, né che sia venuta meno la preziosa opera di assistenza nei loro confronti. Il territorio ha continuato silenziosamente a operare per questi nostri fratelli e sorelle, garantendo accoglienza e percorsi di integrazione. Sono migliaia le persone che durante e nonostante la pandemia hanno trovato un luogo sicuro e dignitoso nel nostro Paese, grazie alle tante comunità che non hanno mai smesso di lavorare per il loro bene e quindi per il bene comune. Il fatto di avere parlato meno di immigrazione in questi tempi difficili non credo abbia aumentato l’indifferenza, anzi. Per certi versi parlarne di meno ha aiutato ad abbassare i toni e la conflittualità e ci ha permesso di operare più proficuamente".

Che effetto le fa sapere che l’Italia, in base all’intesa con la Libia del 2017, finanzia i respingimenti che spesso si traducono in un ritorno all’inferno dei centri di detenzione libici? "La questione libica è senza dubbio un tema doloroso che ci richiama al dovere di accoglienza e di protezione verso chi fugge da guerre e carestie. L’accordo con il Paese nord africano rimane un grande punto interrogativo circa la reale capacità dell’Europa e dell’Italia di favorire politiche volte alla gestione dei flussi migratori nell’area del Mediterraneo. Credo che, a livello europeo, occorra maturare una coscienza maggiore, unita anche a un’azione concreta, verso chi soffre dall’altra parte del Mediterraneo, rinchiuso nelle carceri in condizioni disumane".

Che cosa chiedete alla comunità internazionale, come vescovi del Mediterraneo, in merito a quelli che il Papa chiama senza indugi lager? "Il Santo Padre ci richiama costantemente alla necessità di trovare altre vie per la gestione dei flussi migratori. Non si possono sacrificare tante vite umane e infliggere tante sofferenze solo perché non si trovano soluzioni all’arrivo legale e sicuro in Europa. Quanto vediamo in Libia è lo specchio di una crisi umanitaria che non trova nella diplomazia internazionale il giusto spazio né gli strumenti per una corretta gestione. L’invito, dunque, è quello di affermare la centralità del rispetto della vita umana in ogni scelta che viene assunta dalla comunità internazionale. Il trattenimento dei migranti nelle carceri libiche è ciò che di più lontano si possa immaginare circa il rispetto dei diritti umani".

Sul fronte dell’integrazione degli immigrati pensa che la Chiesa stia facendo abbastanza? "La Chiesa che è in Italia, attraverso le sue numerose realtà territoriali, è attivamente impegnata non solo per l’accoglienza dei migranti ma, come ci invita a fare papa Francesco, per la loro protezione, promozione e integrazione. Sono molte le attività che vedono oggi protagoniste le Caritas diocesane, gli uffici Migrantes, le parrocchie, le comunità cristiane che hanno deciso di mettersi in gioco per vivere in prima persona l’esperienza dell’altro e la bellezza dell’accoglienza. Penso anche ai tanti operatori che hanno seguito i migranti in questo difficile momento di pandemia, garantendo vicinanza e accompagnamento quotidiano".

La Chiesa è impegnata nell’attuazione dei corridoi umanitari: è questa la soluzione per governare le migrazioni considerate troppo spesso ancora un’emergenza più che un fenomeno strutturale e inarrestabile? "L’esperienza dei corridoi umanitari in questi anni è un segno che ha dimostrato che esistono delle vie alternative ai trafficanti e alle morti in mare, ma non sostituiscono l’impegno di una accoglienza estesa a tutti i luoghi di frontiera. La Conferenza episcopale italiana ha firmato tre protocolli con il governo italiano per aprire altrettanti corridoi e si è avvalsa della Caritas italiana e della Fondazione Migrantes per individuare e trasferire centinaia di profughi da Paesi terzi. Anche l’impegno della Comunità di Sant’Egidio è stato esemplare. L’aspetto più qualificante di questa esperienza non è stato tanto e solo quello di far arrivare in sicurezza le persone, ma di accoglierle e integrarle presso le nostre comunità attraverso l’accompagnamento di famiglie italiane. È un’azione che ha aperto la strada a un nuovo modo di intendere l’accoglienza, assegnando centralità alla comunità (parrocchie, istituti religiosi, famiglie), intesa come sistema di relazioni in grado di supportare il processo di inclusione sociale e lavorativa delle persone. Occorre che i cristiani tutti si sentano chiamati, in coscienza, a un atteggiamento di accoglienza e di fraternità verso chi fugge da fame, guerre e terrore… La vera svolta sta nel sentirsi e nel farsi prossimo a chi soffre".