Nelle foto la 'colpa' di Saman: volersi bella e libera come le altre

Nelle immagini mandate alle amiche la trasformazione di una ragazza che si è ribellata alle nozze combinate

Le immagini di Samman

Le immagini di Samman

Il dramma di Saman Abbas è raccontato dalle foto del prima e del dopo. Quelle ufficiali dove sorride con gli occhiali e il capo coperto e nessuna preoccupazione per le sopracciglia che si aggrovigliano sul terzo occhio. E quelle rifilate appena in tempo alle amiche sui social in cui una fata buona o una brava estetista le hanno reso giustizia.

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Bisogna guardare quelle immagini e solo in seguito ricominciare con la litania dei come e dei perché. Il prima è un’immagine in bianco e nero. E’ un mondo plausibile altrove o in certi discount di periferia, dove madri in burkini scortano figlie impazienti al reparto cosmesi: va bene il mascara, il lucidalabbra no.

Il dopo ruota attorno al rosso di una bocca strepitosa, alla pelle senza ombre e agli occhi da bambi truccati come quelli di Belen. Il prima è ’halal’, che in arabo significa lecito. Il dopo è ’haram’, proibito.

Halal è preservare la bellezza con il sapone nero macerato nell’olio d’oliva, depilarsi con zucchero e limone caldo per rendere il corpo levigato come marmo. Haram è tutto il resto. Saman voleva anche il resto. L’aveva visto, sapeva come andarselo a prendere al fondo del sentiero sterrato che agganciava la sua finestra alla possibilità di una vita diversa.

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Il suo tradimento e la sua colpa sono in quelle foto. Integrazione, sul dizionario, è soprattutto questo: inserimento dell’individuo all’interno di una collettività attraverso il processo di socializzazione. Per estensione, è avere il diritto di trasformarsi in una delle mille stelline di Instagram.

Volersi bella. Rifiutare un matrimonio combinato con il cugino. Tra le foto del prima e del dopo non sta solo il dramma di Saman ma l’estenuante e invisibile battaglia che si compie ogni mattina in tante famiglie musulmane, quelle della madri in burkini che scortano al discount le figlie impazienti della migrazione.

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Queste ragazze, che a sentire gli insegnanti studiano con passione e a leggere le statistiche vengono ritirate da scuola molto più spesso dei coetanei maschi, custodiscono preziose collezioni di veli e sanno come indossarli per essere attraenti o meno vulnerabili. Ma certi giorni vorrebbero solo sentire il vento tra i capelli lucidati con l’olio di Argan. E stare bene in jeans e maglietta. Sbattere le ciglia finte e farsi i boccoli. Sognare un amore. Insomma integrarsi davvero.

Qualche volta finisce a schiaffoni, stavolta forse anche peggio. Ali Ibrahim, giornalista e scrittore egiziano, ricorda che i musulmani sono gli immigrati meno capaci di integrarsi. "O almeno di comprendere le altre culture, rispettare le differenze e astenersi dall’imporre le proprie idee". Per Saman e le altre è una partita persa ogni mattina sulla soglia del mondo, fra il sapone nero e il rossetto, la famiglia e un’identità in costruzione.

Già nel 1913 un altro egiziano, il giovane sociologo Manosur Fahmy, allievo di Durkheim, discuteva alla Sorbona la sua tesi sulla condizione femminile nell’Islam: "Maometto – scriveva – in teoria si è dato da fare per risollevare la condizione del sesso il cui fascino ha così profondamente influito sulla sua sensibilità poetica. Nonostante le buone intenzioni, però, l’Islam l’ha degradata. Ha soffocato le donne rendendo loro difficile lo scambio con la società circostante".

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Patriarcato, controllo familiare, lettura errata della religione. Una trappola mortale dall’effetto dirompente, conferma Tiziana Dal Pra, fondatrice dell’associazione Trama di Terre che aiuta le ragazze dopo il rifiuto di un matrimonio imposto. Anche per questo bisogna osservare le foto con attenzione. Il prima, il dopo. E le eventuali conseguenze. Se non lo facciamo, la colpa è anche nostra.