Esiste un’italianità connessa alla Nazionale di calcio? "Naturalmente sì. La formazione degli italiani è sempre andata di pari passo con la formazione della squadra, scandita allo stadio dallo speaker. Il calcio non è un semplice gioco. Men che meno per noi: è parte del Paese, della società, del costume e della nostra cultura". Paolo Colombo, sessant’anni, accademico e docente di Storia delle istituzioni politiche alla Cattolica, è milanese "ma soprattutto milanista, inutile girarci attorno". Assieme al collega-tifoso Gioachino Lanotte, professore di Storia contemporanea stregato dal football, ha scritto Azzurri edito dalla Utet. Ovvero selezione nazionale e identità nazionale strettamente intrecciate. Il libro esce mentre iniziano gli Europei più europei di sempre: le sedi sono 11 (numero fatidico), da Londra a San Pietroburgo passando per Roma e il resto del continente. Giochi senza frontiere. Saremo fra i protagonisti: ieri, oggi, domani con il nostro carattere nello zaino. Chi siamo in realtà? "Gente figlia di stereotipi e luoghi comuni. Inaffidabili, furbastri, incostanti, individualisti, attenti all’orticello piuttosto che al bene comune e alla cosa pubblica. Tutto vero, ma nel nostro modo di essere c’è tanto altro. Sarebbe importante assimilare un concetto: siamo fatti così, nel bene e nel male. Gli stranieri lo sanno e ci accettano, spesso ci amano. Noi no". Il calcio lo dimostra? "È uno specchio. La rivelazione dell’indole comune che ci caratterizza, ma in cui ci riconosciamo a stento. Siamo incapaci di celebrarci. Eppure basterebbe poco, senza cadere nello sciovinismo". La Nazionale come segno distintivo? "È la nostra incarnazione. Nelle occasioni cruciali riusciamo a fare squadra e i risultati arrivano. Certi trionfi sorprendenti non sono tali, a ben guardare". Per esempio? "La semifinale mondiale di Messico ‘70: quel leggendario 4-3 sulla Germania". Pensa al gol di Rivera, sintesi di tecnica e genio? "Più ancora all’azione di Burgnich, il difensore-roccia che ...
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