Giovedì 18 Aprile 2024

Il silenzio è ancora una regola

Matteo

Massi

Nel 1962 il giornalista della Rai Gianni Bisiach arriva al cimitero di Corleone per intervistare il becchino. Quell’intervista verrà ripetuta due volte, perché il becchino cambia per due volte versione. Diciassette anni dopo Joe Marrazzo, anche lui giornalista Rai, arriva nella piazza di Corleone, all’indomani dell’omicidio del giudice Cesare Terranova, e chiede a un passante: "Esiste la mafia qui?". È costretto a rincorrerlo per avere una risposta (ma non la avrà), mentre Letizia Battaglia espone le foto dei boss nel paese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sono passati anni, lo Stato ha inferto colpi importanti a Cosa Nostra – l’ultimo proprio con l’arresto di Matteo Messina Denaro – ma la regola del silenzio, che poi fondamentalmente è una consegna imposta o autoimposta, vige ancora. Così non stupiscono l’imbarazzo, le mezze parole, le quasi ammissioni che racconta il nostro inviato Giorgio Caccamo a Campobello di Mazara, il paese dell’ultimo boss arrestato.

È sempre stato così, con qualche variazione in più sul tema negli ultimi anni, ma in fondo quel mutismo che Giovanni Falcone in “Cose di Cosa Nostra“ definì proverbiale fino al parossismo, è pressoché granitico.

Così, come tornando a Messina Denaro, quando ci si chiede quali siano state le connivenze di cui ha potuto godere l’ultimo capo dei capi, basta osservare l’imbarazzo e le mezze parole dei suoi compaesani per comprendere come il boss non sia mai stato solo. Soprattutto nel suo feudo, che in fondo era poi il suo scudo che tra silenzi volontari (e anche involontari) è riuscito a garantirgli una lunga impunità. Il suo potere si fondava sulla paura, sul controllo del territorio e anche sul welfare di natura criminale. Lo Stato ha vinto la sua guerra dei trent’anni contro la mafia. Ma la mentalità omertosa, così come la delineò Falcone, non è stata ancora totalmente debellata.