Per approfondire:
Può darsi che una casa d’aste non faccia altro che il suo mestiere mettendo all’incanto un oggetto d’epoca. Anche il volantino con cui le Brigate Rosse rivendicarono il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, il 16 marzo del 1978. Lo fecero trovare i terroristi due giorni dopo in una busta arancione lasciata sopra una macchinetta automatica per fototessere nel centro di Roma. Ottanta righe di delirio rivoluzionario, in cui l’uccisione dei cinque uomini della scorta, due carabinieri e tre poliziotti, padri di famiglia con stipendio proletario, fu liquidata come l’eliminazione di rappresentanti dei "famigerati corpi speciali". Il primo dei nove comunicati, uno probabilmente falso, che accompagnarono il calvario-prigionia di Moro, freddato dopo 55 giorni nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, accucciato, composto, dignitoso, superiore al suo destino e ai suoi assassini. Con il vestito buono, giacca e cravatta, in quello spazio angusto di una utilitaria parcheggiata in via Caetani, a due passi da Botteghe Oscure, sede del Pci, e non lontano da Piazza del Gesù, la casa della Dc. Un luogo e un giorno ricordato da una lapide ipocrita, politicamente omertosa, in cui si parla di una generica violenza, senza che mai le Brigate rosse per il Comunismo vengano citate, e da cui un giovane potrebbe dedurre che quel signore ritrovato lì sotto sia stato vittima di una rapina, di un pirata della strada. È lontano il 1978 per tanta parte degli italiani. Generazioni che non hanno visto, non hanno vissuto, che hanno letto distrattamente. In tanti non coglierebbero la drammaticità della foto allegata al documento, di Moro in maniche di camicia, il capo leggermente reclinato, uno sguardo rassegnato, con la scritta Brigate Rosse e la stella alle sue spalle nella "prigione del popolo"; non capirebbero l’arzigogolo vaneggiante di quel volantino scritto fitto fitto: in cui viene ...
© Riproduzione riservata