Martedì 16 Aprile 2024

"Il respiro più lungo della mia vita" In vetta a 4mila metri dopo la fibrosi

Valeria Lusztig ha scalato il Balmenhorn, sul Monte Rosa, a meno di tre anni dal trapianto bipolmonare. "Mentre salivo mi sembrava di rivivere l’attesa dell’intervento. Ma stavolta sapevo dov’era la cima".

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di Valeria Lusztig

Ho finalmente capito cosa significa respirare. Ci sono voluti più di quarant’anni di vita, una lotta quotidiana contro la fibrosi cistica, combattuta con le nude mani degli antibiotici, della speranza e della ricerca, un trapianto bipolmonare, un rigetto acuto e infine una cocciutissima salita in quota a 4mila metri. Ma quel respiro, in vetta, è stato il più lungo e il più leggero della mia vita. Se lo raccontassi a un alpinista, a un alpinista vero, di quelli che mi guardano perplessi mentre mi superano, veloci e sicuri, si metterebbe a ridere: salire una vetta è come essere in attesa di un organo. Oppure annuirebbe con benevolenza.

In 45 anni di fibrosi cistica, fra tregue benevole della malattia e baratri paralizzanti non avrei mai pensato di trovarmi su un ghiacciaio, per una spedizione ambiziosa quanto folle ed elettrizzante come puntare ai 4mila metri di una cima del massiccio del Monte Rosa. E invece, mentre salgo faticosamente, passetto ramponato dopo passetto, attenta a non pestare la corda, intenta a cercare un ritmo che coniughi passo e respiro, mi sembra di rivivere i giorni del trapianto.

L’1 dicembre 2017. Come allora freddo, imbottita in pile e piumino, anche se adesso è agosto. Come allora sul bianco delle lenzuola dei letti, dei muri, che ora si tramuta nell’immacolato accecante del ghiacciaio. Come il bianco della luce della sala operatoria, che è sempre l’ultimo sguardo del paziente prima della sedazione, ora il candido lattescente ingloba, accoglie, e allo stesso tempo invita ad andare avanti, e in alto, sempre uguale a se stesso, sterminato, eterno.

Allora fissavo i soffitti delle stanze, degli ambulatori, delle sale chirurgiche. La mia mente era vuota, cullata dai bip delle macchine o dall’eco dei medici indaffarati, di cui cercavo di indovinare i pensieri, e quindi il mio destino, dalla mimica dei volti. Ora tengo in mano una corda robusta e ben tesa, al posto di un filo invisibile di cui non conoscevo l’estremità. Il cielo era sempre lì: inaccessibile, ma capace di proiettare la mente in spazi infiniti.

Ora un blu mai visto mi accoglie e mi contorna. Dalle 5 del mattino, orario della partenza dal rifugio Gnifetti quando si vedono già, lontane, file di uomini minuscoli, in processione verso il Gigante, puntini di luce nelle torce frontali che sfidano il buio e il gelo, ognuno per un motivo personalissimo e unico, ma tutti in una sola, ideale cordata innanzi all’immenso. Saltare un crepaccio, passarvi accanto stando attentissimi a seguire la traccia di chi è già passato, è molto simile a essere in lista trapianto. Basta un nonnulla per non arrivare all’operazione, per mancare la vetta. È una scena che si fantastica e che ci vede risucchiati dal ghiacciaio, il panico proprio e dei compagni di cordata, nel disperato tentativo di salvare una vita. Nel momento di chiudere gli occhi e affidare la propria vita nelle mani dei chirurghi, al destino e alla coscienza, mi ero sentita così.

Un salto. Una vetta mancata, un passo falso, una fatica sprecata. Ma caro alpinista dal passo deciso, quello che mi riporta ai giorni lunghi dell’attesa è proprio il respiro. Oggi affanno cercato, cadenzato dal passo e dalla quota. Allora, immobile in un letto, il ritmo del mio respiro era identico a ora, ma avevo una maschera in viso che mi buttava in gola 12 litri di ossigeno al minuto, e nonostante questo l’affanno era senza riposo e quella pietra che vedi lì accanto pesava sul torace in ogni posizione potessi assumere. Ora sento questi nuovi polmoni espandersi e cercare aria per spingere sulle gambe. Li percepisco e so che sono la parte più preziosa di me, sebbene non miei. Così fragili, eppure fortissimi, piccoli come gli uomini davanti alla montagna, ma tenaci e proiettati verso una meta.

Perché se allora volgevo verso qualcosa di indefinito e nebuloso, se le incognite dell’operazione e della rianimazione avevano i contorni sfilacciati dalla paura, ora punto a una vetta, a 4167 metri. So dov’è. So quanti metri mancano (e Dio solo sa se ho contato metro dopo metro, come ho contato giorno dopo giorno, fino alla chiamata). Questa volta intravedo la statua del Cristo delle Vette, immagino la salita, il panorama, benedetto da un sole poderoso, pregusto il respiro lungo che avrò e i muscoli che finalmente allenteranno la tensione, i piedi fermi, il ristoro della sete, la foto di gruppo con le mie incredibili compagne di cordata. Oggi come allora sono legata a persone straordinarie. Al mio donatore, alla famiglia straordinaria che ha scelto di trasformare in sole e vento tutte le lacrime di un momento. Al mio amico Marco Menegus, diventato vento e montagna, che arrivò su queste vette e mi ha spinto fino qui. Allora a chirurghi e infermieri che per 12 ore si sono avvicendati intorno a un organismo da mantenere in vita. Oggi ad anime pure, come Ilaria Pietropaolo, l’infermiera alpinista che, una volta letta la mia folle proposta, mi ha risposto, senza indugi, "ti accompagno io". E lo ha fatto. Forse perché quella luce della rianimazione, quel buio della perdita erano ascritti anche nella sua, di anima.

Persone che spendono fatica, cuore, esperienza solo per esaudire un sogno. Ieri quello di vivere un po’ di più. Ora, quello di salire un po’ più in alto. Lo vedi, caro alpinista? È esattamente la stessa cosa.