Il peso di ricordare l’11 settembre È un’America stanca e sfiduciata

Vent’anni dopo il Paese si sente meno libero e deve fare i conti con un declino che sembra inesorabile

Migration

di Cesare De Carlo

L’America del ventennale degli attacchi dell’11 settembre è stanca, sentenzia lo storico Paul Kennedy (Yale). Peggio. Più che stanca è stupida. O meglio è stupita della sua stupidità. Il Wall Street Journal titola sulla "Età d’oro della stupidità". E nei sondaggi prevale la convinzione che la nazione vada nella "wrong direction". È una strada in discesa lastricata di confusione, frustrazione, delusione, rabbia che la retorica delle commemorazioni non riesce a coprire. E di ribellione: contro tutto quello che l’11 settembre 2001 ha comportato, la restrizione delle libertà individuali, i controlli pervasivi, le code negli aeroporti, la consapevolezza di essere seguiti, ascoltati, influenzati da un apparato che per combattere il terrorismo islamico si è sentito in diritto di entrare nelle case, di spiare gli spostamenti, i viaggi, le frequentazioni, le condizioni di salute.

Forse è proprio per questo, anzi è certamente per questo che gli Stati Uniti non hanno più subito attacchi paragonabili a quelli di New York e Washington. Ma a che prezzo! Scrive Jay McInerney, romanziere corteggiato nei salotti newyorchesi: "Il cuore della città batte debolmente, Manhattan non è più la stessa, gli americani non ci amano più". Non è solo a causa della maledetta pandemia. C’è nel fondo un rimpianto nostalgico per una way of life che forse, anche dopo la pandemia, non si potrà recuperare. È la way of life magnificata da Frank Sinatra: New York, New York – cantava – è la città che non dorme mai, è la città in cui posso raggiungere tutto quello che voglio. In futuro forse non più. La City ha i grattacieli mezzi vuoti. Si lavora da casa. Il traffico è meno nevrotico. Ristoranti e locali faticano a tirare avanti. Sintomi di declino. Declino sociale e storico. Un po’ come avvenne in Gran Bretagna all’inizio del ventesimo secolo e all’Unione Sovietica più tardi. Imperi in disfacimento. Si chiudevano due cicli storici.

Due americani su tre fanno loro la domanda di Paul Kennedy: ma da chi siamo governati? Non ce l’hanno solo con il democratico Joe Biden, la cui crollata credibilità si proietta sull’intera ex superpotenza. Ce l’hanno anche con i predecessori. Con Barack Obama per esempio, di cui Biden era il pallido vice. Non a caso. Ieri la conferma che quattro componenti del nuovo governo talebano sono terroristi detenuti a Guantanamo e liberati da Obama.

Ma la stupidità è storica e precede quel maledetto 11 settembre 2001. Possiamo farne risalire la deriva alla primavera 1998, al Sexgate. Il democratico Bill Clinton salvò il posto, ma sembrò perdere lucidità. Due errori fondamentali: l’ingresso della Cina nella World Trade Organization e il rifiuto di dare il colpo mortale a Bin Laden. Era il dicembre del 2000. Osama era stato localizzato in un campo talebano. Se ne occuperà il prossimo presidente, disse Clinton. Nove mesi dopo New York e Washington avrebbero subito il più grave attacco dopo Pearl Harbor. Anche gli Stati Uniti da allora non furono più gli stessi.

Quella fu la prima di tante altre stupidità. Il saggista Lance Morrow riprende una frase famosa di Jean Cocteau: la stupidità è sempre sorprendente anche se ci si fa l’abitudine. "Biden e la sua fuga dall’Afghanistan saranno ricordati come la stupidità definitiva. Ma stupido è anche il rifiuto di milioni di americani a farsi vaccinare. Stupido l’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump". La realtà è che la stupidità di massa va a braccetto con l’irresponsabilità, l’incompetenza e la demagogia dei governanti. Nessuno escluso da George H. W. Bush (il padre) in poi. E dunque Clinton, Bush figlio, Obama, Trump.

Che differenza! Nel marzo 1991 mentre sulla Constitution Avenue sfilavano i veterani vittoriosi della prima guerra del Golfo, gli Stati Uniti erano all’apogeo del prestigio. Nove mesi dopo l’Unione Sovietica si sarebbe suicidata. Il comunismo sopravviveva solo in Cina, Vietnam, Corea del Nord, Cuba. Sono passati trent’anni. Sembrano tre secoli. All’orgoglio e alla fiducia si sono sostituite la mortificazione e la sfiducia. Gli storici, da William J. Bennet a Daniel Bell, parlano di un trend lento e irreversibile. È il declino. Geopolitico nella perdita di influenza, sociale nelle contrapposizioni etniche, culturale nel revisionismo politically correct. Per ora resiste l’economia. Biden appare percorrere la fase terminale di questo declino. Samuel Huntington lo faceva partire già dagli anni Settanta. In realtà poi arrivò Ronald Reagan e lo rovesciò nel suo contrario: il cowboy, che secondo la sinistra avrebbe fatto scoppiare la terza guerra mondiale, recuperò potenza e vinse la guerra fredda senza sparare un colpo. Non c’è un altro Reagan all’orizzonte. E non c’è nemmeno l’orgoglio del primato democratico. Gli americani si accorgono che il loro sistema elettorale è assurdo, antiquato, esposto ai brogli. Prima o poi arriveranno gli osservatori Onu? Come in Venezuela?

[email protected]