Pierfrancesco
De Robertis
Ogni giorno che passa il Pd appare sempre più come una barca alla deriva, esposta ai marosi e all’assalto dei pirati. E ha forse ragione Matteo Renzi quando spiega che questo Pd, ammesso che ne possa esistere un altro, è il miglior alleato del governo di Giorgia Meloni. La risposta allo stato di coma apparente, né di qua né di là, né sotto né sopra, è prendere tempo. Di congresso, per dire, si parla a marzo. Di fronte a un’emergenza tale, potrebbe forse venire in aiuto la secolare saggezza della Chiesa, che morto un papa riunisce i suoi cardinali, li chiude a chiave in una stanza finché non viene deciso il nuovo timoniere, la nuova rotta. Niente, il Pd non sente questa urgenza, così che ogni settimana perde un punto nei sondaggi: già siamo al 1416, i 5S hanno messo la freccia, e si materializza sempre più l’incubo dei socialisti francesi, passati da essere il partito di Mitterand al nulla.
Tutti danno la colpa a Enrico Letta ma Letta è l’effetto della crisi, non la causa. Letta era infatti il punto di equilibrio del gioco di correnti di un partito che rifiutata l’idea di leadership carismatica e incapace di trovare una sintesi politica tra le proprie anime, aveva di fatto accettato di presentarsi senza una proposta forte, ma con valori che loro pensavano identitari (l’antifascismo, i diritti) e che la gente non ha reputato tali. Mettendo a nudo un vuoto programmatico che ancora resta. E che lascia solo il tempo per una guerra interna di piccolo cabotaggio tra i capibastone, a logiche politiciste e ottocentesche liturgie pre-congressuali, che fanno assomigliare il Nazareno a una versione meno scansonata del Titanic. Rimandare il congresso serve solo a trovare uno schema alternativo a Bonaccini, o a dare il tempo alle correnti di organizzarsi. Nel frattempo i voti fuggono, e non è detto che tornino: tra i 12 milioni di voti di Veltroni 2008 e i 5 cinque di Letta 2022 la scissione tanto temuta l’hanno già fatta gli elettori.