Sabato 20 Aprile 2024

Il patriottismo esiste ancora? Nel calcio sì

Massimo

Donelli

Se l’amor patrio fosse quotato in borsa, ogni due anni registrerebbe un rialzo spettacolare. Bastano i mondiali o gli europei di calcio, infatti, perché il tricolore spunti dappertutto: sulle prime pagine, ai balconi, in piazza. È successo una prima volta nel 1970, con i mondiali del Messico. La bandiera italiana, nata a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, era considerata allora un simbolo neofascista. E grande, quindi, fu lo stupore nel vederla sventolare in tutte le città. Sdoganata? Ma va! C’è voluto Carlo Azeglio Ciampi a darle legittimità e valor patrio, il 7 gennaio 2004, in un discorso tenuto proprio nella reggiana Sala del Tricolore. Prima di allora, con la vittoria ai mondiali di Spagna (1982) della Nazionale antipatica di Bearzot, e dopo di allora, con la vittoria ai mondiali di Germania (2006) della Nazionale molto juventina di Lippi, l’Italia si colorò di verde, bianco e rosso.

Ma, come nel 1970, si trattava di tifo calcistico e, diciamolo, di conformismo, non di patriottismo. Quindi, per tornare alla similitudine iniziale, se in borsa bisogna essere guardinghi di fronte ai picchi troppo positivi, lo stesso vale per le calcistiche esplosioni di tricolore. Non sono una promessa di stringerci a coorte. Non certificano che siamo pronti alla morte. Non sventolano in spirito ciampiano. Gli italiani amano davvero solo il campanile e la squadra (appunto) del cuore. Azzurri (e tricolore) quando va bene. Bianconeri, nerazzurri, rossoblu, rossoneri e viola sempre. O no?