Il paradosso della scuola progressista. "Così ha frenato l’ascensore sociale"

La scrittrice ed ex insegnante Mastrocola: "Basta marketing, meglio un corso su Petrarca di uno sul bullismo"

Una scena del film 'Io speriamo che me la cavo'

Una scena del film 'Io speriamo che me la cavo'

Sulla strada delle buone intenzioni la scuola italiana ha smarrito se stessa. Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante in pensione, punta il dito contro i totem e i tabù che hanno ispirato l’istruzione pubblica negli ultimi decenni. Col marito Luca Ricolfi ha scritto un libro dal titolo eloquente: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza. "Meglio un corso su Petrarca di uno sul bullismo", la sintesi brutale.

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Mastrocola, la scuola ha perso di vista il suo obiettivo?

"Lo ha cambiato. Ora non ha più un fine culturale: vuole soprattutto educare alla cittadinanza, all’accoglienza, all’inclusività. E va benissimo, ma sono parole di fumo. La scuola dovrebbe riconsegnare alla società ragazzi che sappiano parlare, scrivere, comprendere ciò che leggono, e possiedano le conoscenze di base nelle materie fondamentali. Cose semplici. Ma, direi, enormi. Così la scuola sarebbe veramente inclusiva".

Quali le lacune principali?

"Io ho visto arrivare al liceo ragazzi, un terzo per classe in media, privi non solo di conoscenze solide e bene organizzate, ma anche di un lessico sufficiente, delle norme base di ortografia e grammatica e di una struttura mentale logica".

Nel libro sostenete che la scuola progressista sia una macchina della disuguaglianza. Non è un paradosso?

"Un paradosso tragico. Il fine di aiutare le classi svantaggiate era buono, ma la scuola progressista ha preso la strada sbagliata: ha abbassato il livello. Proprio ai ragazzi delle classi basse, invece, occorreva dare una scuola altissima, per esempio insegnare anche l’italiano antico fin dalle medie: Dante, Leopardi; e non toglierglielo perché era difficile e li “umiliava”. Dalle analisi di Luca viene fuori chiaramente: non è solo l’origine sociale a determinare la condizione futura, ma la preparazione di base. Se la scuola non la dà, o la dà annacquata, le classi medio-alte rimediano con lezioni private al pomeriggio, conoscenze familiari e scuole all’estero; i ceti meno abbienti invece annaspano e spesso soccombono. E l’ascensore sociale si blocca".

Quando insegnava proponeva ai suoi studenti la versione dell’Iliade tradotta da Monti, quella che don Milani nella sua Lettera a una professoressa aveva eletto a simbolo della scuola classista. Il Sessantotto c’entra qualcosa con questo declino?

"È stato l’inizio della fine. Il problema comunque non è don Milani, ma il trascinamento estenuato del suo modello fino a oggi".

Cos’è andato storto?

"Be’, abbiamo pensato che studiare così tanto non servisse. Fino al 1969 all’esame di maturità si portavano i programmi di tre anni di tutte le materie, ora un argomento solo, e a scelta del candidato. E poi non abbiamo più tollerato il conflitto tra adulti e ragazzi: troppo faticoso. Siamo una società edonistica, non vogliamo intoppi né frustrazioni. Il voto stesso è diventato inaccettabile, in certe scuole lo si sostituisce con un emoticon".

La provoco: rimpiange la scuola gentiliana?

"Vorrei una scuola che insegnasse cose alte a tutti e non svalorizzasse così tanto le materie umanistiche: se ciò vuol dire essere gentiliani, allora lo sonoMa lasciamo perdere le etichette del passato".

Come hanno inciso le riforme degli ultimi anni?

"Da quella del ministro Berlinguer in poi, le riforme hanno creato la scuola del marketing: di colpo ci sono gli utenti e le offerte. E domina il principio dell’utile: si studia ciò che è immediatamente “spendibile”, e tanti saluti a ciò che nutre solo lo spirito e la mente e il cuore. Che a dar vita a tutto questo sia stata la sinistra non cessa di stupirmi".

Il ruolo dei docenti è sempre meno centrale. Colpa di stipendi troppo bassi, dell’incapacità di selezionare o c’è dell’altro?

"Lo stipendio dà la misura di quanto la società e lo Stato valutino il ruolo dell’insegnante, che, oberato di burocrazia e pedagogia, viene privato anche del suo ruolo culturale".

Bisognerebbe puntare sul merito?

"Certo, ma la scuola progressista non ama i cosiddetti “bravi” perché non rappresentano un problema, non sono una minoranza da tutelare. Invece dovrebbero esserlo, perché una scuola di bassa qualità annoia le menti migliori e le perde. I bravi se ne vanno, e noi non formiamo più la classe dirigente".

Un quadro fosco. Come si rimedia?

"Servirebbero rigore e mete alte. E un patto chiaro tra docente e allievo, con il primo che proponga al secondo: “Seguimi, farai fatica, ma alla fine possiederai il mondo”. Come quando dopo una dura scalata si raggiunge la vetta della montagna. La scuola di oggi, invece, spiana le montagne per essere più “accogliente”: così lascia tutti in pianura".

Ci sono speranze?

"La strada ormai è segnata. Si parla solo di innovazione, tecnologia e nuovi metodi pedagogici, mai di cultura. Tutto il mondo occidentale va in questa direzione. C’è una specie di pensiero unico conformista, intriso dei luoghi comuni del politicamente corretto".