Il murale di Alfredino, un inno alla vita perduta

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Roberto

Pazzi

Col grande murale di Roma del bambino che nel 1981 (era il 13 giugno) perse la vita nel pozzo, dopo essere stato solo per un attimo raggiunto dal volenteroso che vi si era calato, Alfredino Rampi entra di diritto nella Storia d’Italia. Ma ci entra per la porta discretissima del dolore, della fatalità, del mistero della sorte, una soglia assai stretta, ben poco corteggiata, che lascia passare rare immagini, pochissimi idoli. Perché è la non invidiata soglia della tragedia, quella che ci fa chinare la testa davanti all’oscurità della nostra condizione.

L’aveva scritto così bene Fernand Celine in “Viaggio al termine della notte“: "La verità di questo mondo è la morte, bisogna scegliere, morire o mentire". Noi preferiamo mentire, plaudire cioè al successo, alla fortuna, al denaro, al sesso.

Ma la verità è l’altra. L’immaginario degli italiani è tutti i giorni sollecitato da fantasmi che James Hillman definirebbe privi di necessità, impuri, senza dàimon, senza un’autentica ragion d’essere. La produzione di senso della maggior parte degli eventi che dobbiamo sorbire in televisione è deficitaria. Festival, concerti, gare, sfide, quasi tutto il grande Barnum delle feste di cui gli italiani secondo Leopardi sono così assetati, dura lo spazio effimero e deludente della fama. Si consuma in un fiat. Perché non è la gloria, ma rumore. E quindi si assottiglia, perde vigore e subito muore. Sono idoli deboli, pompati da chi ha solo interesse a venderli, presi dal mondo del calcio, della canzone, dei talk show, dei così detti influencer.

Troppo spesso il popolo che la guarda è migliore della sua televisione. Ecco perché ha un valore così alto questo murale romano su Alfredino, perché in controtendenza è un inno a una vita falciata, a una vita perduta, al sogno di che cosa avrebbe potuto essere quella bella creatura se fosse cresciuta. E quindi anche un invito a farci considerare quanto siamo stati più fortunati di lui.