Giovedì 25 Aprile 2024

Donato Renzetti: "Il mondo della classica è vecchio e ottuso"

Il direttore d’orchestra, 70 anni, si racconta: la passione esplose in terza elementare, la svolta grazie a papà e a mia moglie "Io dirigo ovunque, nei paesini e a Londra. Ho fatto l’opera e Sanremo"

Migration

Tema di terza elementare: "Da grande voglio fare il direttore d’orchestra e andare a Niu York". Errore blu, ma il sogno dell’uomo dalle cento vite si è avverato. Nato in una famiglia musicista e canterina a Torino di Sangro, paesino abruzzese, Donato Renzetti, 70 anni, è diventato una stella internazionale: la bacchetta magica che aveva in testa da quando era piccolo così. "La sua storia sarebbe piaciuta agli americani", scrisse di lui Enzo Biagi. L’opera, la sinfonica, la docenza. E la musica leggera, i locali notturni, i caroselli, Sanremo.

Maestro, la sua avventura corre su uno spartito.

"Mio nonno suonava il basso tuba, mio padre le percussioni, io a tre anni pestavo xilofono e batteria. L’aria di casa era quella".

L’apripista è stato suo padre. Come arrivaste a Milano?

"Fu assunto come tranviere. Entrò nella banda del corpo finché fece il concorso per timpanista alla Scala. Vinse ma agli esaminatori non piaceva uno venuto dalla banda. Così rinunciò per riprovare l’anno dopo davanti all’uomo del destino: il giovane maestro Guido Cantelli, erede designato di Toscanini. Passò sopra la commissione e disse a mio padre: da oggi lei è con me".

La banda rimase orfana?

"Subentrai io. Intanto suonavo la batteria con un gruppo rock nei night".

La scuola?

"Ero al ginnasio. Solito tema: voglio fare il direttore d’orchestra. La prof convocò mia madre Nina: qui studiamo greco e latino, suo figlio ha un’altra vocazione. Mi iscrisse al conservatorio Verdi e al concorso per timpanista alla Scala. Mio padre lo scoprì scorrendo la lista dei candidati".

Come reagì?

"Mi guardò negli occhi: ti preparo, ma non ti conosco. Fui preso come percussionista aggiunto e a 13 anni debuttai nella Bohème diretta da Karajan. Era il 1963, non ho più smesso di lavorare".

Che fine aveva fatto il ragazzino che sognava il podio?

"Ero entrato nell’orchestra Monteverdi di dilettanti, suonavamo tra ospizi e manicomi. Si ammalò il direttore, salii su una cassetta della frutta e dissi: sono io il maestro".

E la musica leggera?

"Nel ‘68 feci un’audizione con Nora Orlandi: avevo una bella voce e mi prese nel coro dei mitici 4+4. Dischi, caroselli. E il festival di Sanremo".

Ricorda quella del 1971? Elsa Martinelli annunciava all’Ariston: di Albertelli e Renzetti, ecco a voi Andata e ritorno, cantano Maurizio & Fabrizio.

"Come compositore ero scarso. Vinsero Nada e Nicola Di Bari, poi Feliciano con i Ricchi e poveri, terzi Dalla e l’Equipe 84. Lucio fece gruppo con noi, cenavamo assieme".

Chi erano gli interpreti del suo brano?

"I miei due cugini Maurizio e Popi Fabrizio. Maurizio è il genio della famiglia, l’autore di capolavori come Almeno tu nell’universo e I migliori anni della nostra vita".

Maestro, si fatica a starle dietro. Quando arriva il podio?

"Strada facendo. Nel ‘76 vinsi il premio Respighi all’Accademia Chigiana. Poi la consacrazione nel 1980: il concorso intitolato a Guido Cantelli, il maestro che aveva promosso mio padre. Era scomparso in un incidente aereo una settimana dopo la nomina alla direzione della Scala. La notte della vittoria piansi".

Si spalancarono le porte?

"Mi spinse mia moglie: ora sei un direttore d’orchestra vero, rischia".

Sua moglie da dove sbuca?

"È il soprano Silvia Baleani, conosciuta nel 1977 a Bologna. Dovevo dirigere Il signor Bruschino al Comunale. Dissi a mio padre: vedrai che lì trovo moglie. Stiamo insieme da 43 anni".

Lei è una miniera di aneddoti...

"Vero. Dirigevo il Barbiere a Bonn e uccisi un moscone con la bacchetta. Una volta a Parma mi rimase la scarpa incastrata sul palco, un violinista la liberò con l’archetto. E a Verona, durante l’Aida, la bacchetta mi volò dalle mani: finì sul petto di uno spettatore giapponese".

E i cantanti?

"Che figuraccia a Chicago nel 1984. Cast stellare per Ernani: Pavarotti, Cappuccilli, Ghiaurov, Grace Bumbry e in più la Freni. Avevo a disposizione una Limousine con autista. Finito lo spettacolo vollero essere accompagnati ai loro hotel, anche se il mio era il primo sulla strada. Dopo capii che l’ultimo pagava la mancia. Me la squagliai alla Alberto Sordi".

Il preferito fra gli attori?

"Dario Fo. E poi Carmelo Bene: abbiamo fatto il Manfred di Schumann, tiravamo tardi a parlare di tutto. Una sera mi invitò in un ristorante a dieci stelle di fronte alla Scala, il mio sogno da quando ero timpanista a contratto. Entrò, io ero ancora fuori e sentii le urla mentre litigava con un regista molto famoso. Uscì furioso: si va a mangiare da un’altra parte. Non volevo crederci".

Il maestro che l’ha più impressionata?

"Claudio Abbado. Ho lavorato con lui 16 anni, la sua conduzione mi affascinava. È stato molto affettuoso, un episodio dice tutto".

Quale?

"Alla Scala era in locandina Gruppen di Stockhausen, opera molto complessa con tre orchestre e tre direttori: Abbado era il principale, poi Bellini e Muller nell’ordine. Io suonavo nell’orchestra di Muller, che si sentì male. Mi telefonarono a casa: Abbado vuole che sia tu a sostituirlo. Passai la notte a studiare, con papà e i caffè di mamma. La mattina alle prove salii sul podio. I miei colleghi erano eccitati: forza Donato, portaci in serie A. Non volevano essere la terza orchestra".

Come andò?

"La partitura prevede una staffetta continua tra i direttori. Invece ci furono trenta secondi di silenzio. Abbado alzò la voce: Donato, che aspetti a darmi l’attacco? Sentii il brusio degli orchestrali: addio, qui si retrocede in serie D. Ma replicai con fermezza: maestro, tocca a lei, l’errore è suo".

Bel coraggio. E poi?

"Abbado controllò lo spartito, si avvicinò e chiese scusa. Fu grandioso. Gli orchestrali esultarono come per un gol".

Un gol? Le piace il calcio?

"Ho giocato nella Murialdina e da ragazzo frequentavo San Siro. Per arrivare allo stadio gli amici mi facevano fare la sirena in macchina: mi viene perfetta, ho un ’mi’ naturale".

È tifoso?

"Milanista. Ma so a memoria la formazione della grande Inter: ero in curva nel ‘65 a distribuire programmi, la notte della rimonta contro il Liverpool in Coppa dei Campioni. Esaltante".

Maestro, chi è il direttore d’orchestra oggi?

"Non si capisce. Il mondo della classica è vecchio, ottuso, convenzionale. Io vengo guardato ancora con sospetto. Ma Torino di Sangro o Londra, non mi importa dove dirigo. Agli allievi spiego: vivete e non fissatevi con la carriera".

Quanto conta la musica in Italia?

"È il nostro tesoro però non viene insegnata alle elementari: senza cultura non c’è futuro. I giovani devono fare la rivoluzione".

 

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro