Il modello dei sindaci ha funzionato

Pier Francesco

De Robertis

Nel recente passato ci sono state riforme che non hanno funzionato e altre che hanno funzionato. Tra le prime la riforma del Titolo V approvata dalla sinistra a maggioranza di pochi voti (alla faccia del pericolo spallata contro la Costituzione più bella del mondo), e che a detta (postuma) degli stessi promotori fu un madornale errore, e che adesso non impedisce agli stessi di pontificare tutto il male possibile sulle riforme degli altri e sull’intangibilità della Carta.

Tra quelle che hanno svolto un ruolo positivo c’è invece l’elezione dei sindaci e dei governatori regionali che hanno cambiato in meglio la vita e l’efficienza delle nostre amministrazioni locali. Chi ha qualche anno in più ricorda lo stato di paralisi continua in cui vivevano comuni, province e regioni prima dell’elezione diretta. A titolo esemplificativo, Roma: dal 1993, con l’elezione diretta, Francesco Rutelli rimase in Campidoglio per otto anni, fino a quando si dimise nel 2001. Nei dieci anni precedenti – dal 1983 al 1993 – la Città eterna fu invece retta da quattro sindaci e tre amministrazioni commissariali diverse. Discorso più o meno analogo per le regioni. Che, come come i comuni, hanno goduto non solo di governi lunghi, ma soprattutto scelti dai cittadini. Le alchimie di palazzo, che più di una responsabilità hanno nella scarsa affezione dei cittadini per il Palazzo, lì non si sono viste.

Perché quindi non replicare ciò che ha funzionato? Per sindaci e governatori non si è dovuti ricorrere a riforme costituzionali, e il discorso è stato più semplice. Ma forse è il momento di chiedersi se non sia il caso di buttare questa positiva esperienza. Certo, c’è un discorso di pesi e contrappesi da affrontare, ci sono garanzie da immaginare. Ma il modello è passato nella testa della gente, e forse anche la sinistra farebbe bene a rendersene conto.