ANDREA LIGABUE
Cronaca

Il mister giramondo: "Gli allenamenti col Ramadan e quelli a -23 gradi in Mongolia. Il mio calcio è senza confini"

Il sammarinese Marco Ragini da sedici anni accetta incarichi di squadre in Paesi scomodi "A Ulan Bator vinsi durante il recupero e il presidente mi telefonò nella notte per lamentarsi".

Il mister giramondo: "Gli allenamenti col Ramadan e quelli a -23 gradi in Mongolia. Il mio calcio è senza confini"
Il mister giramondo: "Gli allenamenti col Ramadan e quelli a -23 gradi in Mongolia. Il mio calcio è senza confini"

di Andrea

Ligabue

In viaggio da sedici anni. Dall’Europa all’Asia, passando per l’Africa. Il football è il comune denominatore, la fame di nuove esperienze e la fervida curiosità sono la benzina di Marco Ragini, 56 anni, di San Marino, allenatore di calcio. Ora è in Tagikistan come supervisore di tutte le squadre della Nazionale.

Ragini, come ci è finito in questo Paese poco conosciuto che confina, tra gli altri, con Afghanistan e Cina?

"Mi ha telefonato un procuratore. Fa sorridere che l’intermediario è un nigeriano, che nulla c’entra con questo territorio".

Come si trova?

"La gente è splendida, ospitale. Tutto è amplificato: monumenti, stadi e palazzi sono maestosi, come nell’ex Unione Sovietica. In inverno fa molto freddo, d’estate si arriva a 50 gradi, ma le città sono ad almeno 900 metri di altitudine e quindi il caldo non è opprimente. Sa invece cosa soffro? Il fatto che a pranzo si pasteggia con il tè. Alla fine ti viene una pancia così...".

Ragini, saliamo sulla sua astronave e ripercorriamo a random il suo giro del mondo. Nel 2020 era in Malesia.

"Là il calcio è seguitissimo, i tifosi impazziscono. Per una finale di coppa nazionale sugli spalti ho visto 95mila spettatori. Complicatissimo allenare con il cento per cento di umidità. Devi poi fare i conti con la religione: appena arrivato le sedute erano alle quattro del pomeriggio e dopo un’ora ero costretto a fermare tutto perché i calciatori pregavano. Altoparlanti a tutto volume e atleti inginocchiati. In periodo di Ramadan allenarsi diventava uno strazio, soprattutto per i giocatori. Non potendo bere neppure un sorso di acqua avevano tutti la bava alla bocca e correvano ai due all’ora. Non si poteva fare".

Ha trovato la soluzione?

"Sì e no. Ho spostato gli allenamenti all’una di notte, ma i giocatori arrivavano che si erano mangiati di tutto. Avevano la pancia gonfia all’inverosimile e durante gli esercizi si lasciavano andare... Ora sorrido, ma a quel tempo mi incazzavo. E dire che eravamo in Serie A...".

Dopo una sola stagione ha detto basta.

"Non per gli allenamenti. Una volta mi è squillato il telefono alle tre di notte, qualche ora dopo aver vinto un match con un gol al terzo minuto di recupero. Era il presidente: ‘Le partite vanno vinte prima, entro il novantesimo, altrimenti per me è un pareggio’. Una volta avrei sbroccato, ma l’esperienza in Mongolia mi ha cambiato e in quella occasione ho portato pazienza".

Poi cosa è successo?

"Un mio giocatore sbaglia un fallo laterale. Alla sera il presidente mi chiama per insegnarmi come va battuto… Me ne sono andato. A tutto c’è un limite".

Quando era in Malesia è arrivato il Covid.

"Nel ‘casino’ mondiale, abbiamo avuto la possibilità di vedere isole bellissime che pensavo esistessero solo nelle favole".

Parla al plurale.

"Nella mia vita da sette anni c’è Martina, conosciuta in Slovacchia, dove ho vissuto la peggior esperienza da trainer. Ma l’ultima sera che ero là ci siamo per caso incontrati: è il mio scudetto, mi ha cambiato la vita".

In particolare?

"Lei è meglio di me. Prima ero egocentrico, credevo di sapere tutto. Mi ha cambiato ed è uno stimolo continuo a migliorarmi".

Nel 2018 è stato in Mongolia.

"Primo allenamento: ventitré gradi sotto zero. Un freddo mai sentito. Indossavo tre calzamaglie, due giacche a vento, il passamontagna: mi si vedevano solo gli occhi. Finiamo la seduta e i calciatori restano a torso nudo sul campo a parlare del più e del meno. Sono dei guerrieri con fisici pazzeschi".

Diceva che, oltre alla sua compagna, la Mongolia ha contribuito a farla diventare una persona migliore.

"Sono molto meno istintivo. Ho imparato a riflettere, ad ascoltare le persone. I mongoli hanno i tempi giusti per stare con le persone, per condividere le cose. Danno priorità a chi sta loro davanti. Noi non lo facciamo più: interrompiamo il nostro interlocutore, spesso senza nemmeno averlo ascoltato. Poi mi ha impressionato il rapporto che instaurano con gli stranieri"

Cioè?

"Noi li percepiamo come figure ambigue, dalle quali bisogna stare in guardia. Là i bambini ti abbracciano e le mamme li lasciano fare. Qui da noi sarebbe impensabile. Là c’è accoglienza, fiducia verso lo straniero. Quando torno in Europa capisco che ormai è un altro mondo: hai timore a relazionarti con le persone, soprattutto con gli stranieri"

Voliamo in Africa.

"Il 95 per cento della gente non possiede nulla, eppure tutti sorridono sempre. Sento tante teorie sull’Africa, io penso semplicemente che, essendo sempre stati dominati da qualcuno, hanno paura di prendere iniziative. Dalle più importanti alle più sciocche. Un esempio: se sei in una stanza e c’è un tavolino che ostruisce il passaggio è logico spostarlo, invece l’africano lo lascia dov’è. Ma non è lassismo, poca voglia di fare. E’ un blocco mentale che hanno".

Lei è stato in Congo, dove la guerra civile è abitudine.

"L’unico posto dove ho temuto per la mia vita. Ho visto sparare, uccidere, ho camminato per strada tra decine di cadaveri. Ma c’è un prima che resterà per sempre nel mio cuore"

Racconti.

"I calciatori non volevano essere allenati da un bianco. Prima che arrivassi mi sono fatto mandare le foto dei trentadue della rosa: erano tutti uguali, ma li ho memorizzati bene. Quando mi sono presentato e li ho chiamati ciascuno col proprio nome ci sono rimasti. Da quel momento il rapporto è decollato, tanto che di quella squadra sono il padrino di quasi tutti i figli dei calciatori. E molti li hanno chiamati Marco. Esperienza umanamente splendida, ma a tratti durissima. Penso alle convocazioni per le partite: a chi restava fuori quella settimana veniva tolto il 40 per cento di quel poco che percepivano di stipendio. Non dormivo la notte, perché sapevo che i figli degli atleti ‘tagliati’ avrebbero faticato a mangiare".

Con un team nigeriano è stato al Torneo di Viareggio.

"Non si entrava in campo se non dopo una lunghissima preghiera. E mi coinvolgevano: prendevo le caviglie di un giocatore e in francese pregavo per lui e tutti i suoi familiari. Ragazzi splendidi, sempre sorridenti, molto rispettosi".

Quando allenerà in Italia?

"Negli ultimi due anni ho avuto tre offerte da club di Serie C, ma tutti mi hanno chiesto di portare lo sponsor. Pagare per allenare dopo quarant’anni di carriera proprio no".