
Una giovane donna, Saman Abbas, strappata troppo presto alla vita e finita nella dimensione eterna del senza tempo, dove vivono coloro che i popoli elevano a eroi e simboli. Come nella tragedia greca. Per i suoi genitori, il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen, accusati di omicidio aggravato da premeditazione, futili motivi e aver commesso il fatto verso la figlia, il procuratore capo Calogero Gaetano Paci e il pubblico ministero Laura Galli hanno chiesto la pena massima: ergastolo, con isolamento diurno per 2 anni. Lei è la 18enne pakistana, trovata sepolta sotto un rudere vicino alla sua casa di Novellara: per l’accusa, i genitori volevano darla in nozze a un parente in Pakistan più vecchio e non gradivano la sua relazione con un connazionale in Italia. Così l’avrebbero consegnata allo zio Danish Hasnain perché la uccidesse, col concorso dei due cugini Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq. Davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Cristina Beretti, per loro tre la procura ha chiesto 30 anni e le generiche equivalenti alle aggravanti: per lo zio per aver fatto trovare il corpo di Saman; per i cugini per la giovane età e il "rispetto" che avevano verso gli uomini più grandi della famiglia.
L’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile per il fidanzato Ayub Saqib, rifiutato dalla famiglia di lei, ha criticato le richieste della procura di concedere le attenuanti: "La valutazione della condotta degli imputati spetta al tribunale, la procura avrebbe dovuto chiedere l’ergastolo per tutti". Il procuratore Paci aveva descritto Saman come una giovane con un "enorme anelito alla vita". Parla di "contrasto col sistema di valori della famiglia di origine". Di una parabola estrema: "Perdita di dignità, disonore, trasgressione e repressione". Fino alla morte. Per Paci, Saman è un simbolo: esprime "la contraddizione universale tra libertà, desiderio di vita e repressione, autoritarismo". Cita le chat col promesso sposo in Pakistan: "Io non voglio sposarti". E lui: "Ma tu sei pazza, io non rompo questo fidanzamento per l’onore della mia famiglia, magari ci separiamo dopo". Pazza la chiamava, "senza fare neppure il suo nome", intercettata dopo la morte di Saman mentre parlava con l’altro figlio, anche la madre Nazia Shaheen, descritta dal procuratore come "glaciale, lucida e malvagia". "Ma l’onore della famiglia non può essere destabilizzato dalla pazza. Per loro se appartieni al sistema di valori occidentali, sei femmina. Eppure Saman – rimarca Paci – voleva solo vivere la sua vita, camminare mano nella mano per strada a Bologna, scambiare un bacio". Parole struggenti.
Ma poi il procuratore richiama la violenza annichilente della mafia: "Il contrasto tra ragioni di vita e il sistema familiare fa di Saman una figura universale. Lei ha osato sfidare il dominio della volontà in una famiglia viziata da pseudovalori". Richiama le storie di donne siciliane e calabresi uccise perché si ribellarono alle loro famiglie mafiose. Come Rosalia Pipitone, eliminata dal padre; Francesca Bellocco, ammazzata dal figlio; Maria Concetta Cacciola, "che ingerì acido muriatico dopo aver destabilizzato la famiglia. Come Saman". "La famiglia aveva la struttura di un clan, proprio – sostiene Paci – come le ‘ndrine calabresi".