di Antonella Coppari ROMA Cronaca di un flop annunciato, previsto e, in una certa misura, costruito con sapienza. Mai i seggi sono stati così vuoti: alle 19 aveva votato per i 5 referendum sulla giustizia meno del 15% degli elettori. Gli attivisti del sì commentano depressi la batosta sui social, se la ridono con il top trend su twitter #ciaone i fan del no. Il sogno di raggiungere il quorum (50% più uno degli aventi diritto) non lo nutriva nessuno. La sfida era mettere insieme una percentuale dignitosa, intorno al 30%. Una causa persa. Difficile invogliare gli italiani – salvo i più convinti – a votare con la certezza di fare uno sforzo inutile. Le ragioni del flop sono molteplici, e tra queste va incluso un certo autolesionismo dei referendari. Con il tempo, è vero, i quesiti sono diventati sempre più incomprensibili, questa volta però sfioravano il grottesco. Tanto più che la materia era molto oscura per chi, per lavoro o passione, non si occupa di giustizia. Ma non c’è dubbio che una parte anche maggiore della responsabilità è dei media. Con una campagna referendaria presa sul serio, giornali e tv avrebbero potuto chiarire e sviscerare i quesiti. Non l’hanno fatto: anzi, è stato dedicato ai referendum uno spazio inferiore rispetto al passato. Un po’ perché la guerra tiene banco, calamitando attenzione e share, un po’ perché molti puntavano proprio su questo risultato. È il problema endemico di questo istituto in Italia, frutto anche dell’inflazione referendaria imposta dai radicali: la sfida non è più tra sì e no, ma tra quorum e non quorum. Per cui i ’no’ partono sempre con un vantaggio: quel 25-30% di astensionismo cronico. Fine dei giochi. Ora riprende il cammino in Senato la riforma Cartabia che contiene, tra l’altro, l’argomento di tre quesiti (separazione delle funzioni, ...
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