Venerdì 19 Aprile 2024

Il giorno della fiducia Orgoglio, nazione, futuro La prima donna premier racconta un’altra Italia

Un’ora e dieci per Giorgia Meloni al suo debutto alla Camera come presidente del Consiglio. Ci sono i temi identitari e la voglia di dialogo. Su migranti e tasse rigore senza irrigidimenti

Migration

di P.F. De Robertis

Il confronto dentro la maggioranza è sfida scalena e per questo imprevedibile, ma nei settanta minuti circa in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni parla alla Camera le uniche vibrazioni avvertite sono quelle del timbro di voce della premier che procede decisa, a volte emozionata, alternando il condizionale, tremulo tempo verbale della politica, arte del possibile, con l’asciuttezza dell’indicativo, tempo della realtà, e l’assertività del futuro, il tempo della volontà. "Le radici più profonde sono quelle che non gelano" era uno degli orgogliosi motti tolkeniani dei Campi Hobbit, e dalle sue radici, radici sue personali, anche familiari, Giorgia Meloni è partita per disegnare il suo governo. Che è innanzitutto un governo politico perché discende direttamente dalla volontà dei cittadini, che è di legislatura e quindi gli alleati sono avvertiti, che ha chiari riferimenti culturali perché ha una precisa idea di nazione che guarda al futuro e verso il futuro deve andare. Piaccia o meno, quella è. È però fatta di idee e non di imposizioni perché diktat non si sono visti, ed è in fondo l’idea di una destra "possibile". "Voglio fare quello che sono stata chiamata a fare, anche a costo di non essere rieletta", con la porta aperta al confronto.

Quello della Meloni è stato così un discorso di centrodestra, a tratti appunto di destra, con accenti anche identitari (per alcuni troppo), ma non è stato un discorso fazioso. Realizzando la premier quel saggio pensiero di un vecchio ministro, ormai morto da tempo, secondo cui "un partito può arrivare al potere da destra, da sinistra o dal centro, ma quando vi arriva il suo programma finisce per avvicinarsi al centro, perché è il programma del Paese".

Un discorso importante, denso, che va letto per le cose che sono state dette, ma che come in un negativo fotografico va soppesato per quello che non c’è. Nessuna parola ad esempio per Berlusconi. Giorgia Meloni ha citato la Lega, gli altri partiti della maggioranza, il presidente della Repubblica (più di una volta), Mario Draghi (idem), il Papa, Plutarco, Cingolani, Steve Jobs, ma non una parola sul leader di una delle forze principali della sua coalizione, quello che ama sentirsi il padre nobile. Niente padri nobili. La "piccoletta", come la chiamava il Cav, fa da sé. Un messaggio chiaro che fa il paio con quel "non sono ricattabile" della settimana scorsa. Le ruggini, e anche qualcosa di più, non sono quindi risolte.

Non ha spinto più di tanto il piede sul tasto immigrazione, e qui il pizzino è stato duplice, all’opposizione ma anche a Salvini alle sue tentazioni di reintestarsi la battaglia sui flussi. Meloni avrebbe potuto rispolverare sic et simpliciter la vecchia battaglia identitaria del blocco navale e invece ha rispolverato solo la missione “Sophia“ dell’Unione europea, che in alcuni casi prevede dei blocchi, ma insomma aveva la targa Ue. Anche sulle riforme istituzionali la premier non ha alzato i muri, anzi. Ha detto che il punto di partenza di qualsiasi discussione sarà il semipresidenzialismo alla francese, mettendo così in difficoltà la sinistra che con la Bicamerale D’Alema quel modello votò. Non ha spinto in materia fiscale, concedendo pochissimo alla Lega e alla sue pretese di flat tax e di sanatoria. Non ha marcato antichi tratti sovranisti, confermando la marcia indietro verso l’Unione europea di cui si riafferma l’importanza anche se nel rispetto dei rispettivi ruoli. E confermando che in politica internazionale razzola molto meglio (e con realismo) di come predica, o ha predicato. Non ci sono stati neppure accenti tipo il comizio di Marbella. Solo qualche cedimento "sentimentale", da alcuni giudicato eccessivo quando ha richiamato l’attività della destra democratica degli anni Settanta (non tutta quella destra fu democratica) e la sua evoluzione, alludendo anche ai giovani "uccisi in nome dell’antifascismo". Visto i tempi che tirano, un terreno abbastanza scivoloso. Sarà stato il "richiamo della foresta".

Per il resto è stato un manifesto in cui sono riemersi i temi della campagna elettorale, dall’Ucraina al Covid (qui poco conciliante), il reddito di cittadinanza, e non sono mancati riferimenti toccanti al fatto di essere il primo premier donna. Tutto abbastanza visto. Anche se in fondo Meloni ha manifestato un leitmotiv tutto sommato nuovo, e che le opposizioni non hanno colto, ed è stato il continuo riferimento alla libertà. Libertà di impresa, libertà degli individui, principio di sussidiarietà negli ordinamenti nazionali e sovranazionali. Per una destra come quella di Meloni, che viene da una concezione organicista più che liberale (nella prima il singolo è definito in relazione all’insieme di cui fa parte, che sia famiglia o sistema sociale, nella seconda ha un valore in sé), si tratta di un cambiamento, meglio di una evoluzione, non da poco. La famosa virata al centro.