Il futuro dei 5 Stelle appeso al referendum

Il Movimento ha fatto della lotta alla casta la sua ragion d’essere. Dopo si aprirà la partita della legge elettorale e del nuovo capo dello Stato

di Antonella Coppari

Per una volta non ci sono dubbi su chi vincerà se prevalgono i Sì al referendum: il Movimento Cinquestelle. La riforma sul taglio dei parlamentari è loro, e solo loro. Gli altri partiti li hanno seguiti: chi prima, chi – come il Pd – più tardi, dopo aver votato contro per tre volte, quale merce di scambio per la nascita del governo, oppure per paura di entrare in rotta di collisione con gli umori antiparlamentari che i grillini non si fanno invece problema a cavalcare.

Nonostante gli sforzi di Zingaretti per intestarsi nell’ultimo miglio la riduzione di deputati (da 630 a 400) e senatori (da 315 a 200), i dividendi politici finiranno tutti nelle casse M5s e, in particolare, in quelle di Luigi Di Maio che ha impostato tutta la sua strategia sulla vittoria referendaria. Il successo aumenterà il peso contrattuale dei grillini nei rapporti di maggioranza ma soprattutto – almeno nei suoi calcoli – offrirà all’ex vicepremier l’arma per chiudere la partita con l’amico-nemico Di Battista, riprendendo totalmente il controllo di un Movimento che ha in gran parte già recuperato, riuscendo a non farsi rimpiazzare.

Molto dipenderà dalle percentuali, per questo i fautori del No (dichiarati e nascosti) ma anche diversi fan del taglio sperano in una vittoria di misura, comunque non oltre il 60% dei Sì. È vero che l’eventuale approvazione della riforma offrirebbe alla destra un argomento apparentemente possente: in quel caso l’opposizione reclamerà a voce altissima il voto, sostenendo che questo Parlamento è ormai delegittimato e che bisogna eleggerne un altro, omogeneo al nuovo dettato costituzionale.

Ancora più acuti saranno gli strilli che denunciano l’impossibilità di fare eleggere a un Parlamento delegittimato il nuovo capo dello Stato. Per quanto riguarda il primo fronte l’arma è spuntata: la nuova norma costituzionale attesta la liceità delle attuali Camere fino alla fine della legislatura. Formalmente si può andare avanti senza problemi, con grande gioia di Giuseppe Conte. Nella sostanza, prima di votare bisognerebbe comunque ridisegnare i collegi e la maggioranza avrà gioco facile nell’opporre la necessità (effettiva) di varare una nuova legge elettorale, senza la quale il taglio dei parlamentari si tradurrebbe in una ghigliottina sulla rappresentanza sia politica sia territoriale.

Più complesso il discorso sulla nomina del prossimo Presidente. Mancano oltre due anni, ci sarebbe tutto il tempo per cambiare il Rosatellum. Qui il punto, però, è politico: con le attuali Camere, la maggioranza non ha alcuna possibilità di eleggere un proprio capo dello Stato. Tutto è possibile, ma di questo tema si riparlerà tra parecchi mesi. C’è un ultimo aspetto che potrebbe dare vita a tensioni tanto rumorose quanto inutili. Se il No prevalesse laddove non si celebrano elezioni regionali e la riforma fosse approvata solo grazie all’apporto delle zone in cui il referendum è stato abbinato alle amministrative, il No denuncerebbe senza dubbio la prova elettorale come viziata dall’accorpamento. La tesi non è infondata, ma non ha possibilità di ottenere risultati.