Il dialetto non avvicinerà i giovani alla fede

Lucetta

Scaraffia

Durante l’incontro con i catechisti italiani, papa Francesco li ha incitati a svolgere il loro insegnamento in dialetto, indicandolo come modo sicuro per arrivare al cuore dei giovani. Naturalmente, e lo specifica lui stesso, non si tratta di un dialetto nel senso linguistico del termine, ma di "quella lingua che viene dal cuore, che è nata, che è proprio la più familiare, la più vicina a tutti", considerandola l’unica via adatta a operare una conversione. E certo sappiamo che l’unica possibilità per risvegliare la fede è l’autenticità, cioè un esempio di condotta cristiana vera da parte di chi svolge il ruolo di insegnante, di guida spirituale. Quindi, in questo senso il papa ha ragione.

Ma possiamo avere qualche dubbio se papa Francesco intende proprio che solo un linguaggio semplificato e vicino a quello quotidiano dei giovani possa toccare la parte profonda del loro cuore. Perché qualsiasi cosa che non si differenzi dalla loro vita quotidiana risente della sua ovvietà e mediocrità, mentre al contrario solo un linguaggio nuovo, diverso, può incuriosire, far capire che c’è qualcosa di sconosciuto, di più alto a cui aspirare. I giovani hanno bisogno di essere scossi, aiutati a prendere le distanze dalla vita di ogni giorno, devono imparare a guardare più in alto, e a questo fine un linguaggio diverso dal loro abituale può svolgere un ruolo decisivo per interessarli e coinvolgerli.