Il Covid e l’emergenza senza fine. Abbiamo rimosso l’idea della morte

Franco Cardini: secolarizzazione ed edonismo ci hanno portati a negare l’evidenza che la vita finisce

Un particolare del Trionfo della morte (1446) conservato a Palazzo Abatellis a Palermo

Un particolare del Trionfo della morte (1446) conservato a Palazzo Abatellis a Palermo

Viviamo in emergenza dal marzo del 2020. Da quando, cioè, il Covid-19 ha invaso le nostre vite. Abbiamo reagito prima con scetticismo, poi con preoccupazione, infine con panico. Abbiamo pianto i nostri morti, abbiamo accettato privazioni ritenute impensabili ai nostri diritti e alla nostra libertà. Gli anziani hanno pagato un prezzo altissimo. Ma anche i bambini e gli adolescenti, che si sono trovati chiusi tra quattro mura, privati di ogni relazione sociale, costretti a una devastante didattica a distanza. I danni psicologici li pagheranno per chissà quanto tempo. Ebbene, ora abbiamo i vaccini. La pandemia finalmente sembra poter essere gestita. Ma la tensione non cala e i media la alimentano. Perché c’è sempre una variante dietro l’angolo, perché è sempre possibile l’arrivo di un altro virus. L’immunità di gregge, il feticcio che ci aveva fatto sperare di poter scrivere un giorno (vicino) la parola fine, non sarà mai raggiunta. E allora? Dobbiamo rassegnarci a una vita in perenne emergenza? Oppure dobbiamo accettare che il Covid esiste e che continuerà a esistere e che bisogna convivere con esso come facciamo con le altre malattie? Ma ne siamo capaci? Siamo ancora capaci di mettere in conto il rischio della malattia e della morte? Su questo tema abbiamo chiesto una riflessione a Franco Cardini.

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Finalmente. Era ora che l’opinione pubblica nel suo complesso, in Italia come un po’ in tutta la società occidentale, si rendesse conto di una pericolosa assurdità epica e psicologica, una sorta di malattia progressiva che negli ultimi decenni – di pari passo con il cosiddetto "processo di secolarizzazione" e con lo strisciante edonismo della "società dei consumi" – si è impadronita di noi e dei nostri costumi. È almeno dalla seconda metà del Novecento infatti – e la recente pandemia non ha fatto altro che intensificare tutto questo – che la nostra società è isterizzata in modo così patologico dalla fine della vita che arriva a negare la morte. Ma se non accettiamo che la morte c’è, non riusciremo a uscire dall’eterna emergenza che questa pandemia continua a imporci.

Sulle prime, è accaduto di soppiatto, furtivamente: abbiamo cominciato con il minimizzare al massimo le cerimonie funebri (spesso con l’alibi che si trattava di cose "religiose", da non sottolineare troppo in una società "laica"), poi con il far sparire o con il camuffare nel nostro lessico anche quotidiano – sostituendole magari con più o meno felici eufemismi – tutto quel che alla morte e al morire si riferisse, infine col dichiarar guerra a tutti i simboli che in qualche modo ne richiamassero il tema: via gli abiti a lutto, via il color nero (magari sostituito, durante le esequie, da insulsi toni pastello), via dal linguaggio pedagogico e scolastico tutti i riferimenti alla fine della vita.

Questo iter ha fatto parte delle originali innovazioni, uniche nella storia del mondo, apportate alla nostra vita civile dalla Modernità occidentale. Non era mai successo prima: fino dall’antichità preistorica, tombe e simboli mortuari sono stati tra i fondamentali segni di civiltà in quanto collegati alla continuità della memoria, alla maestà dei sistemi religiosi, alla necessità di onorare chi aveva vissuto prima di noi, alla consapevolezza del comune destino che affratella tutti gli esseri viventi ma anche delle problematiche connesse con la considerazione che in natura nulla muore del tutto mentre tutto si trasforma e quindi con la speranza – razionalizzata e trasformata in fiducia religiosa – che la morte stessa non fosse la fine assoluta di tutto, che in qualche modo si potesse vincerla.

In altre parole, miti e riti del passato – nelle religioni antiche e anche in quelle tuttora praticate – insegnavano (e, correttamente intesi, continuano ad insegnare ancora) ad "addomesticare la morte": a considerala una magari mesta e paurosa compagna di viaggio, ma anche una presenza familiare che per certi versi poteva perfino diventare amica e consolatrice. Nella nostra cultura medievale e moderna – studiata per esempio da Philippe Ariès, da Alberto Tenenti, da Chiara Frugoni – i temi artistici del Trionfo della Morte e della Danza macabra servivano appunto a questo: a sottolineare che la vita, sotto forma di mutamento fisiologico ma anche di ricordo, di memoria, di fama, di storia, di meditazione sul tempo ma anche di desiderio di Eternità, doveva per forza di cose finire con il trionfare sulla morte.

L’individualismo moderno, il prevalere di sistemi filosofici a carattere totalitaristicamente materialistico, il dogma del "diritto alla felicità" che aveva e ha inscritto nel suo stesso Dna la negazione della morte avvertita come fine di tutto e quindi massimo dei mali, ci hanno ridotto all’angoscia continua, inesprimibile ma soffocante di oggi. Si pensa che soltanto il negazionismo isterico o l’incoscienza di una sorta di costante ebbrezza mentale possano salvarci dall’orrore di una fine sentita come assoluta. Avevamo addomesticato la morte: l’oblìo delle tecniche con le quali ciò si conseguiva – a cominciare dalla preghiera – ne ha favorito il ritorno selvaggio.

Spia di tutto ciò è, fra le altre cose tutte aberranti, il successo che in una società che non vuol ricordarsi in alcun modo della fine fisica hanno i film, gli spettacoli in genere, i videogame ispirati al genere horror in tutte le sue possibili implicazioni. Viviamo in un mondo assurdo, nel quale è proibito parlare pacatamente della morte ma dove "ci si diverte" solo con i fantasmi, i vampiri, gli zombie e i cascami del demonismo tardoromantico riciclati in termini kitsch tanto orrifici quanto spesso ridicoli.

Trascurata, privata dell’onore dovutole con le cerimonie, i Trionfi e le Danze macabre che respinti nel limbo del folklore, quella che un tempo un fraticello dall’anima immensa ci aveva insegnato a chiamare "sòra nostra Morte corporale" – così fraterna e consolatrice – si è vendicata trasformandosi in incubo, in fantasma scheletrito e ghignante che si cerca di tener a bada negandolo istericamente: e la psicanalisi è lì, a ricordarci ch’essa ha cessato di essere la nostra mesta, severa Compagna di Viaggio per trasformarsi in silenziosa, terribile, minacciosa, invincibile scherana che sorveglia, contandoli, i nostri passi e che noi non osiamo evocare. Ha risposto al nostro tentativo di aggirarla organizzando un suo "ritorno selvaggio".

Oggi, c’illudiamo di tenerla a bada e di "batterla sui tempi"– è la nostra ultima miserabile trovata – con lo stratagemma dell’eutanasia, trionfante e disperata risorsa dell’individualismo giunto all’ultimo stadio, la rivolta contro la natura. Andate a Salisburgo una di queste estati, se potete. Ogni anno si recita in piazza La morte di Ognuno di Hoffmannstahl. È un salutare promemoria, migliore del "la morte è mia e la gestisco io" del nostro delirio di onnipotenza che nega se stesso ogni volta che viene pronunziato.