Martina Fidanza: "Il ciclismo è rosa e fa star meglio. Polpacci grossi? Siamo toniche"

La campionessa del mondo a Roubaix: sfilare sul red carpet è stato bellissimo. Il doping non esiste solo in questa disciplina

Martina Fidanza sul red carpet di Venezia

Martina Fidanza sul red carpet di Venezia

Adesso basta parlare di ciclismo. Martina Fidanza ha provato anche la pallavolo, la ginnastica artistica, la ritmica e il pattinaggio. Ha sfilato sul red carpet a Venezia con un abito da sera verde smeraldo di Jenny Monteiro, maniche a sbuffo e taglio asimmetrico. È fidanzata, con tutte le cose che ci sarebbero da dire a proposito di un grande amore. E ha 56mila follower su Instagram, dove condivide l’ultima vacanza a Santo Domingo e altri pezzi di vita fra Bergamo e dintorni, come molte ragazze di ventidue anni, con rari accenni al pedale. Basta ciclismo? Un’impresa, considerando che va in bicicletta da quando era bambina, si allena 5 ore al giorno per le Fiamme Oro, ha fatto incetta di titoli juniores europei e mondali gareggiando su pista e su strada, prima delle Olimpiadi di Tokyo è stata 9 volte campionessa italiana e si è presa due coppe del mondo di specialità scratch. E poi il suo cuore batte per un ciclista, il professionista Riccardo Stacchiotti. Il padre Giovanni, ciclista anche lui, già gregario di Bugno, maglia ciclamino e vittoria di tappa al Giro d’Italia e al Tour de France. La mamma Nadia Baldi? Ciclista azzurra, di buon livello. E la sorella maggiore Arianna? Indovinato, ciclista. Nella squadra australiana BikeExchange, a sua volta plurititolata in pista. Non se ne esce.

Allora senta, parliamone ma sfatiamo due luoghi comuni: il ciclismo è roba da uomini e fa venire i polpacci grossi.

"Assolutamente no. Il ciclismo femminile negli ultimi anni è cambiato, ci siamo ritagliate il nostro spazio anche se siamo ancora gocce nel mare. Non mi piace l’abisso che c’è rispetto agli uomini. E possiamo dire la nostra senza preoccuparci dei polpacci, che al massimo diventano tonici. E poi la femminilità viene da dentro".

Perché il red carpet? Vanità?

"So dove vuole arrivare. Gli atleti devono stare in pista e non tirarsela in passerella. Io invece penso sia una cosa bella mostrarci fuori dal nostro ambiente. Per farlo conoscere. Io ero là per avvicinare il pubblico a uno sport che è abbastanza sconosciuto, se parliamo di donne. Le gare femminili vengono guardate come cosa da dilettanti. Ci dicono che non abbiamo tattica, che non sappiamo correre. Invece va pensato come un lavoro da professionisti. Non lo era per mia madre, per me sì. E nel tempo libero mi prendo i miei spazi. Sotto i riflettori mi piace mostrare anche i difetti. Ho il naso storto, i denti sporgenti. E allora?".

E papà è ingombrante?

"Neanche un po’. È quello che mi conosce di più. Essendo stato un ciclista capisce i momenti di difficoltà. Mi tranquillizza prima delle gare. Mamma mi dà un bacio e basta".

Pantani diceva che il ciclismo non è uno sport qualunque. Non perde mai nessuno, tutti vincono nel loro piccolo.

"Perché la sfida è con te stesso. Vinci quando arrivi in cima a una salita, quando uno che non ti ha mai vista prima ti saluta come se fossi una vecchia amica. E poi si adatta all’umore: esci in gruppo se ti senti gregario, vai veloce quando hai aggressività da sfogare. Anche a 90 anni sei il passeggero e il motore. Non ti limiti a osservare il paesaggio ma ci sei dentro. Se questa non è una vittoria…".

Tuttavia, spostando la prospettiva, è anche uno sport da perdenti: si parte in 200 e vince uno solo. Percentuale avvilente. Nel calcio l’avversario è uno e c’è la possibilità di pareggiare.

"E anche questo è il suo bello. Come ricordava Pantani gli obiettivo sono dentro, ognuno si dà la meta che vuole. Io ogni volta che salgo in bicicletta sono felice. La malinconia non è compatibile con quel movimento di gambe. Sei giù, nervoso, incavolato? Fatti 50 chilometri e vedrai come le idee si mettono in ordine. Nessuna sofferenza resiste a un colpo di pedale. Non mi limito alle gare. Mi piace andare a zonzo con il vento in faccia, sentire i rumori della strada e del bosco mentre cadono le foglie. Per fortuna non ho grossi problemi ma di sicuro quello è il modo di trovare le soluzioni".

La sua prima bici da corsa?

" A 5 anni. Verde e gialla, i colori della Polisportiva Marco Ravasio. Era di mia sorella Arianna, che ha 4 anni più di me. Le prime volte seguivo lei al campo di Brembate di sopra. Un totem, intendo la bici. Ma ho dovuto lasciarla presto perché crescevo troppo in fretta. Oggi sorrido a ogni ciclista, anche a quelli maleducati di città che vanno contromano. È un veicolo simpatico, pacifico. Le guerre non si fanno in bici. I pedoni si ignorano, gli automobilisti si insultano ma i ciclisti sorridono. Ammiro il Belgio e l’Olanda che non rinunciano nemmeno se diluvia. Faccio qualche resistenza solo quando si va sottozero. Allora mi alleno al chiuso, anche se qualcuno sostiene che pedalare sui rulli è come fare surf nella jacuzzi".

Giampaolo Ormezzano diceva che il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita.

"Fango sudore e lacrime. Pensava a quello? Tutto vero. O pensava al doping? Quello è presente in tutti gli sport ma chissà perché viene bene associarlo al ciclismo. Intorno a Pantani è stato dipinto uno scenario inverosimile. Io vado di frutta e verdura, aminoacidi e maltodestrine su consiglio del nutrizionista perché altrimenti dopo 5 ore di allenamento perdi i muscoli. Ho capito la grande lezione dello sport: tutto ti torna indietro, anche gli errori. E il sacrificio viene sempre premiato. Basta avere pazienza".

A meccanica come è messa? Sa cambiare una ruota?

"Fin lì ci arrivo. E so anche tirare su la catena. Ma registrare il cambio no. A quello ci pensa papà".