Mercoledì 24 Aprile 2024

Il calcio piange Corso, piede sinistro di Dio

Una carriera nella Grande Inter, dove ha vinto scudetti e Coppe dei Campioni. Era un talento puro in una squadra di fuoriclasse

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Dopo Sarti Facchetti Picchi e Peirò se n’è andato anche il numero undici di quella formazione che viene tuttora recitata a memoria come un mistero glorioso della storia del calcio e non solo, pure di quella dei nostri meravigliosi anni Sessanta, anni del boom, anni beati.

Mario Corso, detto Mariolino, è morto ieri a 78 anni. Non vinse palloni d’oro e vestì perfino poche maglie della nazionale italiana. Ma solo lui - neanche Maradona - è stato chiamato "il piede sinistro di Dio". Fu il mister di un’altra nazionale, quella israeliana, a battezzarlo così.

Con il Padreterno, di sicuro Corso aveva un rapporto particolare. Come Rivera, non aveva infatti alcun merito nell’essere un grande calciatore. Il talento gli era stato infuso dall’alto, gratuitamente. Mazzola, per dire, si era costruito la tecnica restando, ad ogni fine allenamento, a palleggiare per ore contro il muro. Corso, invece, le sue finte, i suoi assist, i suoi dribbling, i suoi tiri ad effetto li aveva nel sangue, ricevuti appunto da Iddio così, senza un motivo, perché Iddio è fatto in tal modo, ha le sue preferenze e distribuisce bellezza a chi gli pare.

Corso non aveva neppure bisogno di impegnarsi più di tanto. Di correre, ad esempio. Giocava spesso da fermo, tenendo i calzettoni abbassati, e quando arrivava la stagione più calda si piazzava nella zona del campo protetta dall’ombra, sotto la tribuna. Un rifugio dal quale si allontanava soltanto, e camminando, per andare a battere quelle punizioni dal limite che divennero la sua specialità. Le calciava senza rincorsa, accarezzando il pallone, che volava sopra la barriera e s’abbassava di colpo, per infilarsi sotto la traversa o meglio all’incrocio dei pali. "Punizioni a foglia morta", vennero chiamate, proprio perché la palla cadeva lenta come le foglie d’autunno, e però inafferrabile. Corso, che aveva inventato il genere, ne ebbe il copyright.

La più celebre di quelle punizioni la tirò la sera del 12 maggio 1965, all’ottavo minuto di un Inter-Liverpool semifinale di Coppa dei Campioni. I reds avevano vinto 3-1 il match di andata e a Milano l’Inter era chiamata a una rimonta che pareva impossibile. Corso diede il la, a quella rimonta, calciando dal limite un pallone beffardo. Finì 3-0, l’Inter si qualificò per la finale con il Benfica (che poi vinse) e quella serata con il Liverpool ispirò la più bella canzone di Roberto Vecchioni, “Luci a San Siro”.

Eppure Corso ebbe più di un nemico, perfino nella sua Inter. Davano fastidio quel suo vagar molle per il campo, quella sua classe che fissava imbarazzanti paragoni, e quella preferenza sfacciata che aveva per lui il presidente Angelo Moratti, che arrivò a regalargli una Mercedes Pagoda dopo un gol particolarissimo, quello segnato al 110’ dello spareggio del 1964 con l’Independiente per la Coppa Intercontinentale. Il mister di quella Grande Inter, Helenio Herrera il Mago, prediligeva gli atleti e metteva Corso ogni estate nell’elenco dei cedibili. Ma il patron, ogni estate, da quell’elenco cancellava quel nome.

Via Moratti, l’Inter si spaccò in due clan, l’uno capeggiato appunto da Corso, l’altro da Sandro Mazzola. Una rivalità che finiva spesso con la vittoria del secondo, meno taciturno di Mariolino e più abile nelle pubbliche relazioni. Una sola volta fu Corso a spuntarla e a imporre all’allenatore le sue scelte. Fu nell’autunno nel 1970, quando Fraizzoli licenziò Heriberto Herrera e affidò la squadra a Gianni Invernizzi. Questi diede a Corso la regia del gioco e l’Inter vinse lo scudetto rimontando al Milan sette punti (un’enormità, al tempo dei due punti a vittoria). Fu la stagione più bella di Mariolino.

La prima volta che andai a San Siro, ero ragazzino, finii in curva vicino a un tale che teneva sollevato per tutta la partita un cartello con scritto "Dio Corso, pensaci tu". Mariolino divenne da quel giorno il mio idolo, insieme con Bonimba. Quasi quarant’anni dopo lo incontrai alla premiazione dell’Ambrogino d’oro e gli chiesi se potevo stringergli la mano. Lui acconsentì freddamente e si voltò subito dall’altra parte. Ci rimasi male. Ma era appunto un taciturno, un timido, così diverso da tanto divismo. Ci fosse ancora Gianni Brera, finirebbe con le parole che immancabilmente scriveva nell’ultima riga dei suoi coccodrilli: "Ti sia lieve la terra". Ma di Brera non ce ne sono più, come di Corso.