Il calcio ha unito gli arabi "Ma non è una rivincita Il colonialismo è storia"

Il politologo Basbous: "Leoni dell’Atlante applauditi in Africa e Medioriente. La mondializzazione è realtà, tutti vogliono entrare nella corte dei grandi"

di Giovanni Serafini

PARIGI

Più di un match, molto di più. L’exploit in Coppa del mondo del Marocco ha dato fuoco alle polveri dell’entusiasmo in tutto il mondo arabo e africano. "Sono stato sulle spine tutto il tempo, deciso a festeggiare chiunque avesse vinto. Io che non sono un fanatico del calcio sono rimasto totalmente prigioniero di questo fenomeno che va aldilà della mia comprensione", dice lo scrittore Tahar Ben Jelloun, premio Goncourt per La notte sacra, nato a Fès e trapiantato giovanissimo a Parigi. "I Leoni dell’Atlante sono i padroni del mio cuore, hanno compiuto un’impresa storica dando vita in questi giorni all’unità del mondo arabo e africano", aggiunge Leila Slimani, premio Goncourt 2016 per Chanson douce, nata nel 1981 a Rabat e arrivata a Parigi a 18 anni.

Lo sport, collante universale: ne parliamo con Antoine Basbous, libanese di nascita e francese di adozione, politologo, specialista dell’Islam e direttore dell’Observatoire des Pays arabes che ha fondato in Francia nel 1992.

C’è tutto il mondo arabo, tutta l’Africa, tutto il Medioriente e perfino Israele dietro il travolgente successo del Marocco.

"È un avvenimento che ha un grande valore sociologico e politico. Tranne le autorità algerine, che non amano troppo il regime di Rabat, tutti hanno applaudito. Tutti i popoli del mondo hanno gridato senza riserve la loro gioia. Perfino il Jerusalem Post, quotidiano israeliano in lingua inglese, ha pubblicato una prima pagina in cui è scritto a caratteri cubitali ‘Siamo tutti marocchini’. Non si era mai visto niente del genere fino ad oggi".

A cosa è dovuta questa sorta di delirio collettivo?

"Lo sport unisce gli uomini come la religione. Permette di superare immediatamente tutte le differenze, politiche, religiose, diplomatiche. Il Marocco viene da lontano, appariva fino a poco fa come una squadra senza prospettive e senza chances, e adesso si trova sotto i riflettori del mondo intero. È un esempio luminoso per i Paesi arabi africani: il successo dei Leoni dell’Atlante è per tutti la prova che si può riuscire e vincere se si prende la strada giusta".

Anche l’équipe dei Bleus, dove 13 calciatori hanno origini africane e tre caraibiche, è vista da tutti con simpatia nonostante la speranza che fosse il Marocco a vincere.

"Certamente; il football, che è il più popolare degli sport, unisce tutti".

Fino al punto di dare un forte impulso all’avvicinamento fra mondo africano e mondo occidentale?

"Basta guardare quel che abbiamo davanti agli occhi: l’avanzata inaspettata del Marocco fino al Gotha della competizioni, la Coppa del Mondo, si porta dietro tutti gli altri".

Pensa che i Leoni dell’Atlante siano animati anche da una forma di revanche nazionalistica sul periodo della colonizzazione e del protettorato della Francia?

"Non credo; questo può esser vero per i più vecchi, per coloro che sono ancora legati al passato. Ma è trascorso più di mezzo secolo dalla conquista dell’indipendenza marocchina. E la mondializzazione ha prodotto i suoi effetti. Oggi, sull’esempio del Marocco che ci è riuscito, tutti aspirano ad entrare nella corte dei grandi. Il tetto del mondo non è più inaccessibile per loro".

Europa e Maghreb sono più vicini?

"Sicuramente. Sa che la settimana scorsa, dopo la vittoria sul Portogallo, l’inno nazionale marocchino è stato cantato in tutti i licei francesi del Marocco? Questa Coppa del mondo partita sotto cattivi auspici ha scritto una pagina di storia. Anche gli algerini, che pure non hanno grandi simpatie per i loro amici di Rabat, sono scesi in piazza a festeggiare con le bandiere rosso-verdi".

Dopo le pagine nere del Covid, della guerra in Ucraina, della crisi energetica ed economica, c’era bisogno di un po’ di respiro…

"È la grande funzione dello sport, quello vero, quello pulito, quello che non accetta intrighi e corruzione. È sempre stato così, fin dall’antichità. I giochi olimpici nati nel 776 avanti Cristo ad Olimpia in Grecia non erano solo celebrazioni atletiche, avevano una funzione religiosa e servivano soprattutto ad imporre uno stop alle guerre".

Possiamo dire che il cosmopolitismo immaginato dagli illuministi si sta realizzato nel ventesimo secolo anche e soprattutto grazie allo sport?

"Lo sport non divide, unisce. L’allenatore marocchino Regragui ha detto che il calcio è un ponte che unisce Paesi e culture diverse, una realtà che avvicina le nazioni e rafforza i rapporti sociali. A differenza dal fondamentalismo, che distingue tra fedeli e infedeli, puri e impuri, lo sport crea idoli riconosciuti da tutti".