Il boss (pentito) che accusò Andreotti: "Borsellino mi disse: è la mia ora"

Leonardo Messina fu arrestato nel ’92 e cominciò a collaborare col magistrato poi ucciso in via D’Amelio: "Lo vedevo nervoso e gli chiesi: che c’è, dottore? Rispose: non ci vedremo più. Due giorni dopo, l’attentato"

Leonardo ’Narduzzo’ Messina oggi ha 66 anni e una nuova identità

Leonardo ’Narduzzo’ Messina oggi ha 66 anni e una nuova identità

Porta in giro una faccia vera e un nome falso, ma lecito. Quello che gli diedero i genitori in una chiesa siciliana gremita di compari vestiti a festa se l’è portato via, insieme con il suo terribile passato, la legge sui collaboratori di giustizia . "Ossequi a vossia", gli dicevano allora, quand’era un uomo di rispetto. "Buongiorno, signore", gli dicono adesso che è un uomo rispettato. Nuovo di zecca, ma costruito, con due date di nascita: una vera e segreta, una fasulla, ma valida. Leonardo Messina è un neonato adulto con una nuova vita ritagliata su misura. Come quella dei figli e di una quarantina di parenti, tutti ‘lavati’ e rimessi in circolazione con documenti rifatti. Alle spalle e nell’animo, un lungo cammino di giuramenti, riti, cerimonie, spari, omicidi, riunioni, rimorsi, funerali.

Mafioso doc da sette generazioni, Messina è stato un giovane tutto coppola, bombe e Kalashnikov quindi, gradino dopo gradino e agguato dopo agguato, è salito al livello dei boss dell’onorata società. Poi, i primi tormenti, l’arresto e, nella solitudine della cella, un morso nella coscienza sempre più profondo, quasi un malessere ‘integrato’ dal discorso della vedova dell’agente Vito Schifani, l’ha portato a raccontare le trame, i segreti, gli impasti, gli impicci, i silenzi e i misteri della mafia.

 

Un ‘infame’, nel gergo crudo di Cosa Nostra. Un ‘pentito’, nel linguaggio neppure correttissimo del popolo. Un collaboratore di giustizia, secondo la legge, deciso a raccontare il suo cammino fuori dalle regole, srotolato in quasi tremila puntate per lo più davanti al giudice Borsellino. E sulla scia delle sue dichiarazioni, il coinvolgimento di Andreotti e una tempesta di manette ai polsi di duecento uomini, imprenditori, faccendieri e politici. Da allora la Sicilia è un ricordo e una minaccia. Da allora Messina ha un nuovo nome, un nuovo lavoro, una nuova casa e un nuovo oggi senza ieri.

Vive tra noi da sconosciuto. Un fantasma che parla. In carne e ossa. "Dov’è Leonardo Messina?" si chiedevano giornalisti, curiosi e mafiosi. "Sparito", rispondevano in coro. E invece eccolo. Da anni era una voce al telefono. "Un giorno ci conosceremo", prometteva. Ci incontriamo in un parco. "Ha capito chi sono?", si informa sospettoso. "Sì, ha il nome di un genio e il cognome di una città", rispondo.

Sorride, si sblocca e chiarisce.

"Ho chiuso i conti con lo Stato e adesso sono un uomo libero. Ho parlato, ho pagato, per 28 anni ho avuto uno stipendio, ho aperto un’attività, ma a livello psicologico sono rimasto solo, con i dubbi e le certezze. Mi manca una donna accanto. Intelligente e che mi capisca. E intanto porto in giro i ricordi, le angosce e le speranze. Come vivo? Prigioniero del passato. Da monaco senza saio".

E i parenti?

"Con molti di loro ho tagliato i ponti da trent’anni. Non hanno accettato il mio pentimento".

Un sofferto passo indietro, dopo una vita da mafioso.

"Sette fratelli, sette generazioni di mafia di alto livello. Un cugino morto in un agguato, uno zio ucciso dalla polizia. Io sono diventato un ‘uomo d’onore riservato’ a 16 anni".

Riservato?

"Vuol dire che solo il capo della zona sapeva dell’investimento. Luigi Calì, capomafia di San Cataldo, come nei riti massonici mi chiuse in una stanza al buio, a riflettere. Poi, a una riunione, mi disse: scegli un padrino, d’ora in poi sarà il tuo punto di riferimento. Da maggiorenne e dopo l’assassinio di Calì, sono stato nuovamente ‘combinato’. Il giorno del mio matrimonio, in chiesa, ho giurato, con mia moglie, fedeltà alla mafia".

Era il primo passo lungo una strada spesso macchiata di sangue.

"Erano le regole. Uccidi perché pensi che sia giusto farlo, corri il rischio di morire per lo stesso motivo. Col tempo ho capito. Mia sorella è laureata ed è cresciuta con regole diverse. Difficile capirci. Ma dal confronto sono nati i miei primi dubbi".

Lei è salito fino al grado di sottocapo nella giurisdizione del potentissimo Piddu Madonia, di cui era braccio destro e uomo di fiducia, nell’area di Caltanissetta.

"È così. Poi, amante della libertà, ho ceduto il posto ad altri. Madonia, ora condannato a quattro ergastoli, è stato preso grazie alle mie indicazioni. È un uomo intelligente, crudele, loquace e colto. Potentissimo. Per il suo compleanno gli portai un abito, dei soldi e una semiautomatica Beretta 9x21. Un uomo sanguinario. Riina, al quale ho stretto la mano, era un personaggio scaltro. Costruiva, con la paura, il suo potere. Provenzano era un tipo da dietro le quinte, riservato, di poche parole".

E Matteo Messina Denaro?

"Non siamo parenti. Finché può permettersi anche economicamente una struttura di protezione resterà fuori, poi lo prenderanno".

Trattative con lo Stato, affari e malaffari.

"Sono stato il primo a fare il nome di Andreotti. Ho detto che era ‘punciuto’, e cioè punto, affiliato. E sempre io ho messo in moto l’Operazione Leopardo, con 203 arresti".

Lunghi interrogatori e rapidi spostamenti guardato a vista, giorno e notte.

"Ho cominciato a collaborare nel ’92 col giudice Borsellino. Con lui avevo un grande rapporto di stima e di fiducia. A Roma, allo Sco della polizia, mi portava i cannoli. Il 17 luglio ’92 era nervoso, accese due sigarette una dopo l’altra. Era appoggiato a un termosifone quando gli dissi: dottore, che succede? E lui, signor Messina non ci vedremo più, è giunta la mia ora. Morì due giorni dopo, ma sapeva già tutto".

La strage di via d'Amelio
La strage di via d'Amelio

Eppure aveva la scorta.

"Protezione inutile. L’attentato all’Addaura venne fatto con l’esplosivo, come quelli contro Chinnici e Falcone. Come era possibile pensare che non succedesse anche con Borsellino? Lo Stato avrebbe dovuto controllare le auto in sosta, non fornirgli solo la scorta. E mi fermo qui. La notte in cui morì Falcone ero in carcere. Ci furono urla di gioia, brindisi e abbracci. Io provai repulsione".

Come si organizza un attentato mafioso?

"La commissione valuta e decide. Poi si muovono le squadre, indipendenti e sconosciute l’una all’altra. C’è chi ruba le auto, chi procura l’esplosivo, chi pedina e chi compie l’ultima mossa. L’azione ha un costo e il cassiere tiene i conti. A operazione conclusa presenta il bilancio: tante voci, tante spese e il resto, se c’è. Alla fine, quando i conti tornano, il cassiere, presenti i capi, distrugge il foglio in modo che dell’attentato non resti alcuna traccia".

Lei ha parlato e lo Stato l’ha ricompensata.

"Lo Stato è una figura astratta e con me ha semplicemente concluso un patto. Uno stipendio in cambio della mia collaborazione. Ottima paga perché erano importanti i contenuti dei miei racconti. Quello stipendio mi ha consentito di vivere e di trovare un’occupazione una volta libero".

Cosa avvenuta nel 2017.

"Libero? Non sei mai libero, perché vieni spesso convocato per confronti e testimonianze. Dal 2017, comunque, vivo in un film, una vita di bugie. Dico di essere figlio di un emigrante siciliano. Ci vuole coraggio anche con le menzogne e debbo sempre mantenermi lucido per raccontare un passato che non esiste. Mi sono separato, ho convissuto con una donna ignara della mia identità, ora sono solo e gli affetti mi mancano. Sono rinato a 40 anni, mi logoro dentro e prego. Leggo la Bibbia, la tengo in macchina, sul comodino, dappertutto. Ricorda una certa Sicilia, con tradimenti e omicidi".

In che zona abita?

"Lo dico sempre: a Panama e qua e là".

Ha paura?

"La morte è parte del gioco, un modo di essere. Io vivo la vita, Io sono un assassino, ma ho solo ufficializzato quello che gli altri fanno sottobanco. Comunque mi guardo alle spalle e non vado al ristorante con i miei parenti. Non dimentico chi sono stato".

Com’è la mafia oggi?

"L’arrivo dei corleonesi ha portato all’anarchia. La mafia rantolava, ma lo Stato non ha saputo cogliere il momento giusto per chiudere questa partita. In Cosa Nostra non ci sono più uomini di spessore. Quando uccidi un capo hai ucciso anche il suo potere. Puoi trovare chi uccide, ma non chi pensa. Comunque la mafia guarda ad altri interessi".