I vaccini ai figli, i social, il governo Salvini rincorre sempre la Meloni

Il leader del Carroccio sulle orme (anche mediatiche) dell’alleata-rivale. Ultimo caso la profilassi ai bambini

Migration

di Antonella Coppari

Giorgia non vaccina la figlia? "Neanche io ho vaccinato la mia", fa eco Salvini. Lei esalta il trionfo "tricolore" di Arianna Fontana a Pechino su Facebook? E lui, sfidando le ironie degli haters sui social, rilancia: "Il curling, sempre seguito. Oro italiano. Spettacolo vero". Ancora: la leader di Fd’I punta il dito contro l’ennesima truffa legata al reddito di cittadinanza? Idem per Matteo. Insomma, la sensazione che il gagliardo leghista insegua un po’ affannosamente la scattante Meloni è inevitabile. La competizione c’è, ed è scontata. Sia che si trovino nella stessa coalizione sia che veleggino ognuno per conto suo. Con questa legge elettorale che costringe ad abbracci anche insinceri o con quel proporzionale che metterebbe tutti in libertà le cose non cambiano. I partiti sono affini, i banchi al mercato elettorale sono appaiati.

La responsabilità è in parte di Salvini: il predecessore, Bossi, era stato sempre attentissimo a smarcarsi da eccessivi apparentamenti con la destra. Fino al punto di rivendicare la Lega come "erede della lotta antifascista e partigiana". Matteo non è andato tanto per il sottile, si è spostato su un terreno che lo espone alla concorrenza della destra più radicale. Così, inseguire la Meloni è diventata quasi un’ossessione al punto, forse, da spiegare i clamorosi errori commessi nella sfida per l’elezione del presidente. Più che a fare politica, quello che allora era ancora il leader di una coalizione che oggi non c’è più, è sembrato solo interessato ad affermare l’immagine di capo, anche a costo di infilare un passo falso dietro l’altro, finendo sconfitto sul piano della sostanza – non ha imposto un presidente d’area – e su quello della forma. La faccenda in realtà si trascina da mesi, soprattutto sul fronte del contrasto delle politiche di rigore antipandemico, e pure quando qualche risultato lo ha ottenuto, il leghista è apparso perdente.

Ovvio: non poteva difendere fino in fondo la sua linea e restare al governo con Draghi e Speranza. Insomma, la parabola di Matteo Salvini – specialmente nella competizione con Fd’I – ricorda il famoso paradosso di Achille e la tartaruga: per quanto macini chilometri, la tartaruga Giorgia è sempre un millimetro avanti a lui, per il fatto che fare politica protestaria tra gli spalti dell’opposizione è molto più facile che non tentare di quadrare il cerchio restando a Palazzo Chigi. Ne sanno qualcosa Fausto Bertinotti e Rifondazione comunista distrutti da 20 mesi di "partito di lotta e di governo".

L’alternativa suggerita da Giorgetti sarebbe ovvia: giocare il ruolo di forza radicale e anche pragmatica, che non cavalca solo la protesta ma le offre soluzioni. Qui Salvini non si scontra solo con la paura di perdere fette d’elettorato, ma soprattutto con sé stesso. La sua visione della politica tribunizia, eccellente nei comizi tanto da aver risollevato il Carroccio da una crisi terminale ma incapace di andare oltre quel ruolo. Che all’interno di una maggioranza composita e con un governo guidato da Draghi è controproducente e rischia di rivelarsi una condanna.