Mercoledì 24 Aprile 2024

I socialisti, gli anni Settanta, la paura del golpe "Arrivano i colonnelli, dove ci rifugiamo?"

Il libro di Maurizio Sacconi racconta fatti e protagonisti della nostra storia del dopoguerra: dalla Prima Repubblica a oggi

di Maurizio Sacconi

"Ghe semo". Così Nereo Laroni, che sarebbe diventato poi sindaco di Venezia e deputato europeo, mi avvisava di un imminente pericolo con una voce bassa e grave in una telefonata alle tre e mezza del mattino della notte del primo novembre del 1974, mentre intorno i miei genitori mi guardavano attoniti e interroganti. (...)

Tutto era cominciato il 31 ottobre con l’improvviso arresto del generale Miceli, capo del servizio informazioni militare, accusato di essere parte di progetti eversivi da parte di corpi “separati” dello stato. (...) Nella sera di quell’ultimo giorno di ottobre, mi toccò accompagnare Gianni De Michelis a una cena di partito. (...)

Gianni era professore di chimica nella facoltà di ingegneria di Padova e vedeva spesso nei processi politici e sociali dinamiche riconducibili alle leggi della scienza. Quella sera, guidando spericolatamente perché era solito staccare entrambe le mani dal volante per spiegarsi, aprì la danza con una premessa: "A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria". E si azzardò a ipotizzare addirittura i tempi di reazione di “quei” settori dello Stato. "È scientificamente provato che i golpe si realizzano quando la società è meno reattiva, ovvero tra le due e le quattro del mattino. Preparati!". Sbiancai ricordando di colpo la paura di mio padre (partigiano, ndr). E Gianni, non so se anche un po’ per sadismo, confermò che sì, eravamo forse sull’orlo di un atto eversivo con attitudini fortemente repressive. "Tortureranno, tortureranno!" insistette. E poiché non saremmo stati in grado di fermarli, dovevamo essere pronti a scappare.

Azzardai un: dove? Facendo subito l’ipotesi della Jugoslavia. (...) Insomma, no! Ci avrebbero subito restituito ai nostri aguzzini. D’altronde mi chiese come a un esame: "Maurizio, dove fuggì Lenin?". E io pronto: "In Svizzera!". "Appunto!", mi disse e mi mostrò i franchi svizzeri che spuntavano dalla tasca interna della sua giacca, mentre solo allora mi accorgevo di una valigia cicciona piazzata nel buio del sedile posteriore. Insomma, la cosa era seria. Né mi tranquillizzò la conclusione del lungo ragionamento di Gianni sulla relativa compatibilità tra una società industriale avanzata e un regime autoritario. "Non durerà oltre i due anni" sentenziò, "l’importante sarà sopravvivere per avere il privilegio di governare la nuova primavera politica che alla fine ne seguirà!".

Così riassunto, il clima di quei giorni potrà sembrare perfino comico. In realtà, l’intero popolo della sinistra e soprattutto dei suoi dirigenti e militanti più attivi fu travolto da una psicosi collettiva. Vi concorreva anche la recente vicenda cilena che tanto avrebbe influenzato la proposta interna del "compromesso storico".

(...) Nel territorio emerse chiaramente che il Pci aveva una rete parallela e riservata rispetto a quella di partito, guidata da persone insospettabili, informata circa i depositi di armi nascosti alla fine della guerra partigiana. (...) Noi socialisti eravamo infatti ormai saldamente nel settore occidentale, ma il pericolo era comune e ci fece collaborare. E così, nel confronto, rivelammo tutta la nostra fragilità organizzativa. (...) Coniammo perfino una barzelletta. Un dirigente di partito entrò trafelato nella sala della Direzione nazionale gridando "arrivano i colonnelli!". Francesco De Martino (allora segretario nazionale), distratto, chiese spontaneamente, nella logica lottizzatoria del tempo: "Quanti ce ne spettano?".