Saman Abbas, i pachistani e l'Islam più oscuro. "Rischiamo nuovi casi Novellara"

Il giornalista musulmano: "Serve più modernità. Le nozze forzate col primo cugino? Diffuse nelle culture rurali"

Alcune donne pachistane con i loro figli. Molte indossano il velo integrale

Alcune donne pachistane con i loro figli. Molte indossano il velo integrale

"È necessario un Islam italianizzato altrimenti in futuro ci saranno altre Saman Abbas...". Lo ripete da tempo ai tavoli del ministero dell’Interno Ejaz Ahmad, giornalista pachistano e mediatore culturale, membro della Consulta Islamica. Ahmad vive in Italia – ora a Roma – da oltre 30 anni, di cui dieci a Bologna dove è stato tra le prime figure a lavorare per i processi d’integrazione dei connazionali. E soprattutto è un esempio: "Sono musulmano e sposato con una donna italiana, cattolico-cristiana, da 31 anni. Abbiamo figli a cui non abbiamo imposto una religione. Siamo orgogliosi del nostro mix in casa, abbiamo libri e testi sacri in urdu e in italiano".

Ejaz Ahmad, il fratello di Saman ha detto che "chi non si comporta da musulmana, il Corano dice deve essere uccisa...".

"Sono visioni della famiglia e pratiche che avvengono soprattutto in Iran. Quei versi sacri sono stati scritti, ma in un’epoca in cui non c’era il sistema carcerario. Tutto deve adattarsi al contesto storico. Ma il problema nel caso Saman non è tanto la religione, ma il matrimonio combinato...".

Ci spieghi meglio.

"La famiglia Abbas proviene da un villaggio nel Sud del Punjab, dove c’è una cultura rurale basata sull’onore. Questo è figlio anche di lacune a livello di istruzione. Il matrimonio col primo cugino è il fulcro di quella società, derivante dal sistema-caste in Pakistan, necessario affinché le terre restino alla famiglia. Lo stesso primo ministro ha sposato una donna della stessa tribù".

Qual è la base di questa tradizione?

"C’è un’identità culturale di gruppo attorno alla quale gira tutto. Anche per i soldi: se guadagno mille euro in Italia, ne invio 700 in patria, dove vengono divisi in comunità. Il grande problema nasce quando i pachistani di seconda generazione in Occidente si avvicinano alla cultura individuale che in Europa è stata acquisita grazie all’illuminismo, alla Rivoluzione Francese".

Perché?

"In Pakistan questo processo di democrazia non c’è stato. E il tasso di divorzi è molto raro, attorno al 2%. Sa che pensano i pachistani?".

Che cosa pensano?

"Che la loro cultura è superiore rispetto a quella italiana, dove gli omicidi avvengono a opera di mariti, amanti o ex fidanzati. Hanno paura della cultura del single".

E le seconde generazioni di pachistani in Italia cosa pensano?

"Sono arrabbiate e vogliono una soluzione. Serve una riforma, un Islam italiano, perché quello dei Paesi d’origine non funziona qui. I testi coranici vanno tradotti in italiano. Ma serve maggior collaborazione delle ambasciate per trovare un’intesa. Dobbiamo creare nuovi leader, imam moderni. Non ci possiamo aspettare una rivoluzione dai vecchi capi delle scuole religiose. Moschee e mediatori possono avere un grande ruolo nell’integrazione, solo così avrebbe senso il dibattito sullo ius soli".

Cosa si può fare nel concreto?

"Innanzitutto attivare un numero verde come è stato fatto in Inghilterra per ragazze come Saman. In Italia non sanno a chi rivolgersi. Non possono essere i presidi delle scuole ad allarmarsi sulle sparizioni. Le diversità vanno rispettate: i musulmani in India ad esempio non mangiano la mucca in rispetto agli induisti. Ma quelle che non rispettano i diritti umani come poligamia, infibulazione e matrimoni forzati, vanno condannati".

Gli italiani cosa possono fare?

"L’integrazione non è mai unilaterale e l’Italia deve creare nuovi spazi mentali e fisici. Oggi è sì multiculturale, ma non è integrata. Dobbiamo dare protagonismo agli immigrati. C’è un detto che dice: amici di mezzogiorno, nemici di mezzanotte. Ossia: finché gli immigrati stanno in fabbrica va bene. Ma quando vengono in piazza no. Deve cambiare questa visione".

Anche per i pachistani?

"I pachistani devono sentire l’Italia come ‘casa dell’amico’ e non come una ‘casa d’altri’, dove lavorare e basta".