Canè
Il colore quasi si confonde con quello delle divise dei soldati: brunito, tre metri di legno liscio, lucido. È la croce di Nassiriya. Stava in Iraq nella base assaltata dai terroristi il 12 novembre del 2003. Oggi ricorda all’Accademia militare di Modena i nostri 17 militari morti. Lo ricorda agli ufficiali di domani, che prenderanno il posto degli uomini che ora nel sud del Libano, in Iraq, nei Paesi baltici, costituiscono una ossatura importante dei contingenti Onu e Nato. Perché l’Italia non fa la guerra, come vuole la Costituzione, ma non si volta neppure dall’altra parte dove si combatte. Anche a rischio della vita, come a Nassiriya appunto. E allora il Papa fa il suo mestiere quando ammonisce: "Le armi non porteranno mai la pace". Ma se le armi non tacciono, bene ha fatto Mattarella a ricordare nel giorno dei caduti il nostro "contributo per combattere gli orrori e le atrocità delle guerre e del terrorismo". Cosa che facciamo in queste ore con grande pericolo soprattutto dove volano missili tra Israele e Hezbollah, e dove forse le cose non degenerano proprio perché sventola, una volta tanto, la bandiera Onu.
Insomma, mentre le guerre si moltiplicano, si può anche fare della retorica, agitare vessilli arcobaleno. Poi ci sono i fatti. Tragici. E in questa realtà l’Italia c’è stata e c’è con un ruolo che solo l’ottusità o la malafede ideologica non riescono a vedere. Un ruolo importante, perché i nostri soldati sono sempre stati ovunque garanzia di professionalità, di umanità e di dialogo. Non a caso gli Usa hanno chiesto l’intervento dei carabinieri a Gerusalemme, come mediatori tra etnie e comunità religiose diverse e contrapposte. Certo, la guerra costa anche a chi la contrasta. Per questo, ricordando i nostri caduti, fa rabbia il populismo "neo pacifista" (vedi Conte) contro le spese militari. Che l’Italia fa, doverosamente. Per combattere al meglio. Contro le guerre.