I marescialli e la mozione d'affetto. "Non trasferiteci, siamo parte della comunità"

L’appello al comando generale: "Perché dopo dieci anni dobbiamo andarcene? Nei piccoli posti siamo diventati la memoria storica". Tra letteratura e realtà: quegli uomini dell’Arma e il legame con un territorio che va al di là del ruolo ricoperto in caserma

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"I comandanti di stazione sono parte integrante del tessuto sociale della collettività. Avvicendare i comandanti di stazione che hanno maturato 10 anni di permanenza presso lo stesso comando rischia di minare la sicurezza di interi territori". Con questa lettera i delegati Co.Ce.R. dei Carabinieri si rivolgono al comandante generale uscente, il generale Giovanni Nistri che «ha deciso – proseguono – in completa autonomia, di confezionare un bel pacchetto regalo a tutti quei comandanti di stazione che, a suo parere, svolgono da troppo tempo il loro incarico in un determinato territorio». La novità contestata riguarderebbe tutta Italia e prevede un periodo di cinque anni nel corso dei quali potranno essere concesse proroghe di un anno per un massimo di due per poi, a regime ordinario, dal 2026 movimentare tutti gli ispettori che comandano la Stazione da dieci anni.

L’Italia è un grande Paese fatto di paesi. Microcosmi identici a partire dagli attori che si alternano sul palcoscenico. In ogni piazza d’Italia ci sono un bar, un panettiere, un negozio di frutta e uno d’abbigliamento. C’è l’anziano seduto sulla panchina, il ragazzino che gioca a pallone, ci sono i cattivi, c’è il sindaco, la bella di turno, un pasticcere, il medico condotto, il maresciallo dei Carabinieri. Ognuno compartecipe di quella recita seria che serve a mandare avanti la nazione.

Il dovere di far rispettare le regole tocca solitamente a un buon padre di famiglia che non interviene mai volentieri, anche se quello sarebbe il compito che la sua divisa gli impone. Ma il maresciallo dei Carabinieri sa che prevenire è meglio che curare. Nei suoi occhi raramente si legge brama di vendetta. Più spesso la paternale del tutore dell’ordine è tesa a sedare i focolai prima che la fiamma si propaghi in un incendio difficile da domare.

Chissà quante storie di vite raddrizzate sarebbe in grado di raccontare il nostro maresciallo, quanti riconoscimenti da madri sollevate, da padri rincuorati, da figli reinseriti. Il maresciallo è un pezzo della nostra vita e della nostra famiglia e, ogni volta che il dovere lo chiama altrove, i dieci anni che ha passato nella nostra comunità pesano come l’allontanamento di una persona cara.

Mi sono sempre chiesto, quando li ho visti avvicendarsi, quanto del loro cuore rimanga tra i vicoli vicino al campanile, lungo il corso del paese, nell’alloggio dove magari han cresciuto i figli. Sono convinto che lo spessore del sentimento sia identico a quello dei cittadini che hanno cercato in quella divisa la soluzione di un problema che da soli non potevano risolvere. E invece le bonarie capacità sono riuscite ad appianare liti di vicinato, stupidi bisticci, problemi coniugali. Ma anche quando il gioco si fa duro, il maresciallo abbandona il sorriso e inarca il ciglio per meglio combattere malintenzionati e delinquenti che insidiano la sua collettività.

Ricordo con affetto ogni comandante di stazione che ho visto passare per il mio paese; ognuno aveva carattere diverso, ma tutti erano persone di buon senso. L’unico peccato è che siano stati trasferiti quando erano diventati parte integrante della società in un ballo di regole dell’alternanza che non giova alla serenità dei cittadini.

A proposito di ballo, vi ricordate l’impacciato Vittorio Se Sica in divisa da Carabiniere che si cimenta nelle danze con una Sophia Loren mozzafiato? "Ma che è il mambo?", chiede De Sica.

È un mambo italiano, maresciallo, capace di fare grande l’Italia anche grazie a padri di famiglia come lei.