Mercoledì 24 Aprile 2024

I giudici: la pausa caffè non è lavoro "Infortunio al bar? Niente indennizzo"

La Cassazione dà ragione all’Inail: "Non è un’esigenza impellente, ma una scelta libera e personale"

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di Elena G. Polidori

Un caffè può costare caro. Specie se, per consumarlo, s’incappa in un incidente e poi ci si vede anche negare il risarcimento Inail né – tantomeno – il riconoscimento dell’assegno di invalidità. Perché questo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una sentenza destinata a far discutere, chiamata a dirimere un contenzioso tra il medesimo Inail e un’impiegata della Procura di Firenze incappata in un infortunio nella "pausa caffè" che si era concessa con tanto di permesso del capo per andare al bar all’esterno dell’ufficio. La donna era caduta in strada, fratturandosi il polso e, in seguito all’incidente, aveva richiesto indennizzo e invalidità al 10%.

Gli ermellini, però, hanno detto "no". Niente di tutto questo. La ‘tazzina’ non è una esigenza impellente e legata al lavoro, ma una libera scelta, come ha sostenuto l’Istituto nazionale per l’assicurazione degli infortuni sul lavoro difeso dalle avvocatesse Luciana Romeo e Letizia Crippa. A fare per prima le spese di questa stretta della Suprema Corte alla consuetudine del coffee-break è stata Rosanna B., ironia della sorte proprio un’impiegata nel ramo giustizia della pubblica amministrazione, che si è rotta il polso nel lontano luglio 2010, mentre era uscita in pausa caffè, autorizzata dal suo capo. La Procura di Firenze – sua sede di lavoro – non aveva un bar interno.

L’impiegata ha ottenuto in primo e secondo grado da Tribunale e Corte di Appello del capoluogo toscano il riconoscimento del diritto all’ indennità di malattia assoluta temporanea e l’indennizzo per danno permanente del 10% per l’incidente nel tragitto verso il bar considerato infortunio sul lavoro. Ora Rosanna, a 11 anni dal capitombolo e dopo aver atteso dal 2015 la fissazione dell’udienza in Cassazione, ha perso il diritto agli indennizzi ed è stata condannata a pagare 5.300 euro di spese legali e di giustizia. Ad avviso dei supremi giudici, infatti, non ha diritto alla tutela assicurativa dell’Inail chi affronta un rischio "scaturito da una scelta arbitraria" e "mosso da impulsi, e per soddisfare esigenze personali, crei e affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa", pur intesa in senso ampio, "con ciò ponendo in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento" di infortunio.

Pertanto, prosegue il verdetto "è da escludere la indennizzabilità" dell’incidente "subito dalla lavoratrice durante la pausa al di fuori dell’ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè. Ed è poi del tutto "irrilevante", prosegue l’Alta Corte, "la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi o comunque una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l’area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro". Il permesso del capo non tramuta la pausa caffè in un momento lavorativo o connesso a motivi di servizio, perché non è una vera e propria "attività lavorativa", anche se "ad essa connesso o accessorio in virtù di un collegamento non del tutto marginale".