I candidati Pd rinunciano alla battaglia

Sofia

Ventura

È da quando è in fasce che il Partito democratico è in crisi, deve rinnovarsi o ripensarsi, guardare al futuro o ritrovare il senso della comunità. E da quando è nato non ha vinto una sola elezione, pur avendo governato per gran parte della propria esistenza. Forse perché nel 2007 fu un partito nuovo con una dirigenza vecchia, che in fondo voleva soprattutto sopravvivere e garantirsi risorse di governo. Una dirigenza che in parte è ancora lì o in zona, e che è si riprodotta dando alla luce soprattutto giovani vecchi.

Se si toglie la parentesi renziana, è stato soprattutto un partito che non ha mai saputo decidere cosa essere. Ha provato a inventarsi una via alternativa alla socialdemocrazia e si è ritrovato nella ZTL. Ha pensato di imbrigliare i populisti a 5 stelle e si trova a regalare loro elettori. E il momento decisionistico di Renzi, in fondo, è stato soprattutto una banale riedizione di una Terza via obsoleta.

Dal 2008 al 2022 ha perso quasi sette milioni di elettori (dal 33 al 19%), mentre dalle elezioni del 25 settembre a oggi ha perso quattro punti percentuali (è al 14,7% secondo SWG). Per sovrappiù, gli scandali travolgono la sinistra e il peronismo mediatico di Conte rischia di imporsi come la nuova sinistra.

Intanto, a due mesi dal congresso, giungono le candidature. Bonaccini, De Micheli e Schlein. Candidati diversi, specialmente Schlein rispetto ai due emiliani, ma in fondo pronti a esaltare l’unità piuttosto che uno scontro vero su soluzioni differenti per ridare vita a un partito in rotta. Candidati che si misureranno secondo regole bizantine, che pur sfociando nelle primarie, consentono una volta ancora, come ha osservato Antonio Floridia, il controllo da parte delle correnti, già tutte indaffarate, sul processo.

È una storia che per la sua ripetitività è venuta a noia. Ma non siamo su Netflix e l’assenza di una sinistra capace di produrre alternanza e governo non è una buona notizia per nessuno.