Mercoledì 24 Aprile 2024

Guerriglia a Beirut, il governo si dimette

Proteste con sassi e cariche della polizia, l’addio del premier che attacca: il disastro è il risultato della corruzione. Ma il voto non è scontato.

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di Alessandro Farruggia

"Possa Dio proteggere il Libano" ha detto il premier uscente Hassan Diab lasciando il palazzo presidenziale di Beirut dove era andato a dimettersi dal presidente Michael Aoun. E mai una simile invocazione pare più giustificata perchè il Libano è allo sbando. Dopo il disastro del 4 agosto che ha distrutto lo scalo marittimo ed è costato circa 200 morti e alcune decine di dispersi, quasi 7 mila feriti e la distruzione di buona parte della capitale, la società civile che da mesi scende in piazza contro la classe politica libanese ha ottenuto un primo probabilmente illusorio risultato: le dimissioni dell’esecutivo, il quarto in quattro anni, nato lo scorso dicembre dopo le dimissioni del governo di Sa’ad Hariri, che aveva a sua volta lasciato dopo oceaniche manifestazioni popolari.

Anticipata dalle dimissioni di cinque ministri, la sorte dell’esecutivo era segnata. Il premier Hassan Diab è così apparso in diretta tv dal palazzo governativo del Gran Serraglio per annunciare le dimissioni dell’esecutivo. In cielo sono stati sparati fuochi d’artificio in segno di festa mentre a Tripoli, nel nord del Paese, spari in aria hanno salutato la notizia. Attorno al palazzo del Parlamento dove si erano radunati migliaia di manifestanti e la polizia aveva lanciato lacrimogeni per bloccare l’assedio e il lancio di sassi, si è esultato.

Nelle ore precedenti la polizia in tenuta antisommossa aveva sparato gas lacrimogeni e pallottole di gomma disperdendo centinaia di giovani che tentavano di superare le barriere di metallo, erette nei mesi scorsi attorno alle sedi istituzionali. Poi il precipitare della crisi ha allentato la tensione. Ma è il sollievo di un attimo. La strada verso un cambiamento reale che possa evitare che il Libano si consolidi come ’Stato fallito’ resta molto stretta, le stesse promesse elezioni rischiano di non cambiare nulla se non muterà l’assetto istituzionale che ingessa lo stato dei cedri. Diab ieri in tv ha fatto un duro j’accuse: "La corruzione – ha detto – si è diffusa all’interno dello Stato. Mi rendo conto che questo sistema è più grande dello Stato che, avendo le mani legate, non è riuscito a combatterlo. E l’esplosione di Beirut è una manifestazione di questo sistema, il risultato di una corruzione endemica".

Probabilmente corretto. Ma Diab, che ha tentato di presentarsi come colui che ha tentato di salvare il Paese, ha evitato di fare nomi, dei responsabili e tantomeno dei suoi sponsor Hezbollah, e la sua denuncia lascia il tempo che trova. Stretto da una crisi economica senza precedenti e intrappolato in una ragnatela istituzionale etnico-religiosa paralizzante, il Libano è in ginocchio. Il governo Diab aveva dovuto annunciare, a marzo scorso, il default del sistema libanese e non ha portato a termine nessuno dei punti promessi nel programma, né è riuscito ad avviare negoziati seri col Fondo monetario internazionale.

Difficile dire se qualcuno potrà fare meglio. Il governo Diab è in carica per sbrigare gli affari correnti. Formalmente ora è il presidente Aoun che dovrà avviare le consultazioni ma su questo la costituzione non impone al capo dello Stato di avere fretta. Anche le elezioni restano allo stato nel novero del possibile, non una prospettiva certa. Lo Stato profondo, associazioni, clan, partiti e famiglie che contano, remerà per conservare l’esistente. E la protesta in piazza resterà l’unico sfogo dei libanesi.