Google in tilt, il filosofo: dipendiamo dalla tecnologia, non abbiamo pensato a un piano B

Il grido d’allarme del professor Floridi, docente a Oxford: "Troppa fiducia nelle macchine, loro possono tradirci in ogni istante"

Il film documentario Social Dilemma racconta l’intrusione del web nelle nostre vite

Il film documentario Social Dilemma racconta l’intrusione del web nelle nostre vite

"Abbiamo consegnato le nostre vite al mondo digitale, con molta fiducia e senza predisporre alternative. Sarebbe il caso di studiare correttivi su base universale". Luciano Flòridi, 56 anni, romano naturalizzato britannico, è professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford. La figura giusta per inquadrare il black-out di Google e il suo significato.

Non sarà la prima volta, professore, che la tecnologia tradisce. E possiamo essere certi che non sarà neppure l’ultima.

"Un problema simile si era verificato nel 2019. Risolto allora, e risolto stavolta dopo un’ora di stop dei processi di autenticazione. La domanda che dobbiamo porci non è quanto siamo rimasti senza accesso ai servizi ai quali siamo affezionati, ma cosa succederebbe se il crash fosse enorme e prolungato. Un’utenza di miliardi di persone sarebbe pronta ad affrontare i problemi? Sono due i temi da approfondire: come si gestiscono la dipendenza dalla tecnologia e la fragilità dei sistemi, e chi controlla cosa".

Lei, prof, come si tutela?

"Quando ero a ragazzo e abitavo a Prima Porta, nella periferia romana, se mancava la luce, in casa avevamo le candele oppure armeggiavamo con la batteria della torcia. Avevamo un piano B. Perché sapevamo che la corrente poteva saltare. È lo stesso motivo per cui oggi la mia posta elettronica gira su due sistemi separati e sincronizzati. Così, se non funziona Gmail, mi salvo usando Outlook. Se vogliamo, è il banale principio della ruota di scorta. La resilienza assicurata dall’avere un’alternativa".

Banale, però dimenticato. Forse perché la tecnologia è naturalmente seduttiva?

"Ogni conquista del progresso umano ha la capacità di piegare l’iniziale diffidenza grazie a una percezione di qualità del risultato e di certezza della prestazione. Tutti diamo per scontato che la lavastoviglie faccia il suo lavoro, ma nel caso si rompa sappiamo bene di poter lavare i piatti a mano. L’universo digitale crea una dinamica simile: da un lato aumenta la fiducia nella performance, dall’altro attenua la capacità di allarme e di corretta valutazione dei pericoli".

Il figlio millennial cui ordiniamo di salvare le foto di famiglia su distinti cloud generalmente non è molto entusiasta.

"La comprensione della fragilità dei sistemi è paradossalmente più debole in chi è nato nel mondo digitale. Mondo reale e digitale si compenetrano. Per i giovani sono un’entità fusa. E anche i meno giovani li danno per scontati. Ormai viviamo onlife, continuamente, e spesso senza difese: dall’antivirus non aggiornato all’insufficiente conoscenza dei fenomeni globali".

Un tema antropologico e tecnologico?

"Entrambi gli aspetti si mescolano. La crucialità del digitale permea le nostre esistenze. Accade grazie a sistemi che si stratificano a ritmi vorticosi, il cui controllo è lontano da noi e soprattutto inaccessibile. Un rischio tragicamente sottostimato".

Se causa crash di Google per una mattina saltano le lezioni in Dad, gli studenti festeggiano. Ma se un giorno ci svegliassimo senza web, con le reti energetiche hackerate, con i bancomat e i computer delle banche tutti fuori servizio, chi ci salverebbe?

"È il punto decisivo al quale si danno poche risposte. Creare resilienza è un costo per tutti. Non sarà solo il libero mercato dei colossi hi-tech a generarla. L’Unione Europea ha le spalle abbastanza larghe per imporre il dibattito sulle garanzie digitali agli Stati Uniti e alla Cina. Non si può restare fermi. Con il 5G alle porte e l’intelligenza artificiale già in servizio, il tema va affrontato".