Mercoledì 24 Aprile 2024

Giovanni Conso, il ministro degli anni bui del '93

Esponente della corrente di giuristi cattolici, viene chiamato a ricoprire, nel 1993, il delicatissimo incarico di ministro della giustizia. Affronterà Tangentopoli e l'emergenza mafia, uscendone tra luci ed ombre

Giovanni Conso (Imagoeconomica)

Giovanni Conso (Imagoeconomica)

Roma, 3 agosto 2015 - E' stato uno degli esponenti di quella corrente di giuristi cattolici che, come Sergio Cotta e Leopoldo Elia, hanno formato per anni una vera e propria riserva della Repubblica: spendibili in politica, ma soprattutto in grado di indirizzare il pensiero giuridico verso quella delicata mediazione tra cultura laica ed esperienza cattolica che rappresenta per molti versi la miglior eredità della Prima Repubblica. Un compito svolto non senza finire nel mezzo dei marosi delle polemiche e delle incomprensioni - per non dire delle insinuazioni e dei sospetti tipici della bassa cucina della Seconda Repubblica. A differenza di Cotta, che mai ha ricoperto incarichi pubblici, ma anche di Elia, di fatto molto più organico rispetto alle esperienze politiche di ispirazione cattolica, Conso ha mantenuto con la vita pubblica un rapporto molto combattuto. La sua esperienza, infatti, si concentra in anni che definire complessi è poco, e che coincidono con la fine della preponderanza cattolica nelle istituzioni politiche e parlamentari. Fino ad allora il suo curriculum è un'epitome del giurista "d'area": laurea a Torino, insegnamenti a Urbino e alla Lumsa, vicepresidenza del Csm all'inizio degli anni '80. Alla fine il coronamento di una tipica carriera da uomo appartenente al mondo del potere giudiziario: l'elezione alla Corte Costituzionale, dove siede fino al 1991. E' la vigilia del crollo del sistema partitico scaturito con il dopoguerra, e del suo impegno diretto nella cosa pubblica.

Finisce la Dc, il mondo cattolico non ha più chi lo possa rappresentare nelle istituzioni, con la sola eccezione del neoeletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E' anche la stagione dei "governi del presidente", una figura politico-istituzionale decisamente estranea alla prassi dei decenni precedenti: se fino ad allora gli esecutivi erano espresione degli equilibri tra i partiti presenti in parlamento, cui il Capo dello stato dava più o meno un assenso notarile, lo spappolamento seguito a Tangentopoli obbliga il Presidente a divenire asse portante del sistema politico. E' lui a scegliere di fatto il premier, mentre un parlamento politicamente debolissimo funge da notaio di soluzioni che, visti i tempi duri in cui l'Italia precipita nella crisi economica e viene spinta fuori dal Sistema Monetario Europeo, sono escogitate altrove. E' in questo quadro che Conso viene chiamato a ricoprire, nel 1993, il delicatissimo incarico di ministro della giustizia. Sono i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, e le emergenze sono tre, di cui due di sua diretta competenza: economia, Tangentopoli e mafia.

Proprio l'estate del '93 infatti è il momento in cui la mafia colpisce più duramente uno stato indebolito dalla crisi politica: bombe a via Fauro e al Vicariato di Roma, ai Georgofili a Firenze, ancora a Roma a San Giorgio al Velabro. Il tentantivo mafioso è di approfittare delle difficoltà del governo per ottenere un allentamento del regime di carcere duto per i capi mafiosi. Una storia i cui strascichi giudiziari durano tuttora, arrivando a lambire le più alte cariche dello Stato senza peraltro arrivare ad una parola certa.

Conso - lo racconterà lui stesso una volta sentito dai giudici di Palermo - decide di non rinnovare 140 decreti di carcere duro (altrettanti saranno fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994). "Una scelta fatta in autonomia" ripeterà anche all'Antimafia (e che aprirà la stagione dell'arresto, nel '95, di Totò Riina). Ma per la Procura di Palermo sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia. Una trattativa la cui esistenza non ha ancora trovato una conferma oltre ogni ragionevole dubbio.

Un fronte altrettanto immediato è quello di Tangentopoli. Si cerca di tamponare un'emergenza che, al di sotto del livello morale e giuridico, è politica: le istituzioni boccheggiano, private dell'ossigino dato loro quotidianamente dai partiti. Si deve fare qualcosa per evitare l'asfissia. Conso firma un decreto legge che depenalizza il finanziamento illecito ai partiti con un articolo che contiene una norma retroattiva. In televisione i giudici del pool Mani Pulite di Milano leggono un appello, denunciando la possibile fine della loro inchiesta con questo "colpo di spugna". Scalfaro, che pure ha in Conso uno dei suoi riferimenti, decide di non controfirmare il decreto, che decade. E' la prima volta nella storia della Repubblica che avviene una cosa del genere. Difficile immaginare quale sarà il giudizio storico su quelle convulse giornate, la cronaca però può attribuire la vittoria ai sostenitori della procura di Milano.

Conso finisce la sua esperienza diretta in politica e torna al suo amato mondo accademico. Torna a insegnare ad Urbino, presiede l'Accademia dei Lincei. Quando la cronaca ricomincia ad occuparsi di lui, evita con signorilità torinese di lasciarsi trascinare dalle polemiche, facendo comunque trapelare un certo fastidio per talune inchieste che saprebbero più di sensazionalismo che non di ricerca della verità. Una sentenza, poi, la danno i fatti: attaccato da molti, nessuno da anni gli muoveva più una critica. E' il primo giudizio della Storia.