Giornata mondiale della poesia 2020, ecco un antidoto al Coronavirus

"Nove marzo duemilaventi", nelle parole di Mariangela Gualtieri la scossa alle nostre coscienze: "Dovevamo fermarci prima". E una lezione: il calore dei versi è ovunque

La poetessa Mariangela Gualtieri

La poetessa Mariangela Gualtieri

Firenze, 21 marzo 2020 - "La malinconia è la porta chiusa verso la stanza dove dorme il divino in noi – scrive D’Avenia circa Leopardi –. La poesia è il tentativo di dar forma alla chiave che possa aprirla senza mai disperarsi, fino all’ultimo respiro": oggi è la giornata mondiale della poesia, e mai come in un momento come questo proprio della poesia si avverte un bisogno primario, quasi fisico, più del cibo, come fosse solo la poesia capace se non di colmare almeno di placare ogni vuoto di tutto quel che manca.

La poesia più bella di questi giorni, quella che probabilmente tra anni verrà ricordata per raccontare  quel che viviamo oggi nell'isolamento affettivo del Coronavirus è Nove marzo duemilaventi della grande poetessa, scrittrice e drammaturga cesenate Mariangela Gualtieri, già fondatrice del Teatro Valdoca. All'inizio recita: "Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti / ch’era troppo furioso / il nostro fare. Stare dentro le cose./ Tutti fuori di noi. / Agitare ogni ora – farla fruttare.". E ancora: "È potente la terra. Viva per davvero./ Io la sento pensante d’un pensiero / che noi non conosciamo. / E quello che succede? Consideriamo / se non sia lei che muove./ Se la legge che tiene ben guidato / l’universo intero, se quanto accade mi chiedo / non sia piena espressione di quella legge / che governa anche noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo". E ancora: "Se la materia oscura fosse questo / tenersi insieme di tutto in un ardore / di vita, con la spazzina morte che viene / a equilibrare ogni specie./ Tenerla dentro la misura sua, al posto suo, / guidata. Non siamo noi / che abbiamo fatto il cielo".

Non siamo noi che abbiamo fatto il cielo. In queste ore in cui siamo attanagliati dal vuoto di ogni mancanza, piccoli buochi vuoti di abitudini quotidiane e grandi buchi vuoti di senso della nostra esistenza, scopriamo che la poesia in realtà la troviamo dappertutto, la possiamo trovare dappertutto. Forse proprio perché il bisogno è fisico, e allora stiamo più attenti, stiamo più in ascolto.

La troviamo nei film che scorrono uno dietro l’altro, ogni ora del giorno, dentro alla tv: capita d’imbattersi nel Ladro d’orchidee, di Spike Jonze, ed ecco quella frase che dice il fratello gemello di Nicolas Cage a Nicolas Cage, e non te la ricordavi per niente, ma adesso ti si stampa sul cuore: "Tu sei ciò che ami, non ciò che ama te".

La troviamo nei libri, nei romanzi, ripresi in mano perché se c’è un momento per rileggere Cormac McCarthy, La strada, il momento è adesso, perché adesso siamo tutti quell’uomo e quel bambino in viaggio da soli nel mondo bruciato e arido, braccati dalla paura: "Quando ci fu luce a sufficienza per usare il binocolo ispezionò la valle sottostante. Tutto sfumava nell’oscurità. La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l’asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberti morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato".

La troviamo in Ingmar Bergman, più che mai, nel Settimo sigillo. Il film del ’57 con Max von Sydow, scomparso pochi giorni addietro, o la sceneggiatura pubblicata da Iperborea qualche anno fa. La troviamo in quel Nord Europa immaginario in cui il film è ambientato e dove dilaga la peste, e dove viaggiano il Cavaliere Max von Sydow e il suo scudiero di ritorno dalle Crociate in Terra Santa: si sa che il film è la partita a scacchi tra il Cavaliere e la Morte, ma è anche il Monaco che arringa la folla: "Dio ha mandato su di noi il suo castigo: moriremo tutti. Voi, che ve ne state lì in piedi a bocca aperta come dei buoi... E tu, donna, che sprizzi salute e gioia di vivere, forse ti farai pallida e ti spegnerai prima che sorga l’alba. Siete condannati..." e poi, alzando il volto al cielo: "O Signore abbi pietà di noi, nella nostra degradazione. Non distogliere da noi il tuo volto con disgusto e disprezzo, ma concedici la tua Misericordia per amore di Tuo figlio". Il Monaco è lo stesso che farà bruciare sul rogo una ragazza, "quasi una bambina", scrive Bergman, prima torturata poi condannata ad essere arsa viva perché strega: "Ha avuto un rapporto carnale col Diavolo", dice la sua guardia, "Pare sia lei la causa dell’epidemia che ci ha colpito tutti", dice il Monaco al Cavaliere.

La poesia del Settimo sigillo sono i fatti e le parole che Bergman, protestante luterano, fa sgorgare – in tempo di peste, nel corso della lunga partita a scacchi con la Morte  – dall’animo  del Cavaliere: "Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo... è così crudelmente impensabile percepire Dio con i propri sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e di miracoli che nessuno ha visto?... Io voglio sapere. Non credere... Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse". "Forse non esiste", gli suggerisce la Morte. "Allora la vita è un assurdo orrore", risponde il Cavaliere: "Nessuno può vivere con la Morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla".

Giocando a scacchi il Cavaliere temporeggia: ha bisogno di tempo per «un’ultima azione che abbia un senso» in quella che egli definisce "una vita vuota, passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare a vanvera di cose insignificanti, e lo dico senza amarezza né rimorso, perché la vita della maggior parte della gente è così". Distraendo la Morte durante la partita, il Cavaliere salverà la vita a una coppia povera e generosa  di saltimbanchi e al loro piccolo figlio. Solo a quel punto danzerà, sul crinale della collina,  mano nella mano con il Signore con falce e clessidra. Prima della danza, le sue ultime parole saranno state: "Dalle nostre tenebre Ti invochiamo, o Signore, abbi pietà di noi, perché siamo piccoli, e non sappiamo niente".  

Siamo piccoli e non sappiamo niente.  Se non che la poesia è il tentativo di dar forma a una chiave che ci apra  la mente e il cuore. Se non che un atto d’amore verso gli altri può dar senso a una vita.

 

Ecco  per intero la poesia di Mariangela Gualtieri Nove marzo duemilaventi

Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi. Agitare ogni ora – farla fruttare. Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo. Andava fatto insieme. Rallentare la corsa. Ma non ci riuscivamo. Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare. E poiché questo era desiderio tacito comune come un inconscio volere – forse la specie nostra ha ubbidito slacciato le catene che tengono blindato il nostro seme. Aperto le fessure più segrete e fatto entrare. Forse per questo dopo c’è stato un salto di specie – dal pipistrello a noi. Qualcosa in noi ha voluto spalancare. Forse, non so. Adesso siamo a casa. È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo. C’è un molto forte richiamo della specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno. Un comune destino ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene. O tutti quanti o nessuno. È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante d’un pensiero che noi non conosciamo. E quello che succede? Consideriamo se non sia lei che muove. Se la legge che tiene ben guidato l’universo intero, se quanto accade mi chiedo non sia piena espressione di quella legge che governa anche noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo. Se la materia oscura fosse questo tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la spazzina morte che viene a equilibrare ogni specie. Tenerla dentro la misura sua, al posto suo, guidata. Non siamo noi che abbiamo fatto il cielo. Una voce imponente, senza parola ci dice ora di stare a casa, come bambini che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa, e non avranno baci, non saranno abbracciati. Ognuno dentro una frenata che ci riporta indietro, forse nelle lentezze delle antiche antenate, delle madri. Guardare di più il cielo, tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta il pane. Guardare bene una faccia. Cantare piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta stringere con la mano un’altra mano sentire forte l’intesa. Che siamo insieme. Un organismo solo. Tutta la specie la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo. A quella stretta di un palmo col palmo di qualcuno a quel semplice atto che ci è interdetto ora – noi torneremo con una comprensione dilatata. Saremo qui, più attenti credo. Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita. Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro.