Martedì 23 Aprile 2024

Genitori mai: da grandi non faremo figli Sondaggio choc, i ventenni spaventati

De Rita commenta la ricerca della Fondazione Donat-Cattin: "L’Italia è un Paese senza motivazioni. Vale anche per le coppie"

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di Giovanni Rossi

Giuseppe De Rita, 88 anni, fondatore del Censis, è professore in demografia applicata. Ha otto figli (e una masnada di nipoti). Chiedergli perché oggi gli italiani siano in maggioranza renitenti alla riproduzione somiglia a una sfida. E infatti il Prof prosciuga il pianto collettivo con parole definitive: "Almeno sotto le lenzuola nessuno chieda l’aiuto dello Stato".

Nell’anno del Covid, statistiche in peggioramento: il 51% dei ragazzi neppure si immagina genitore. Sorpreso?

"No, perché l’andamento è questo ormai da anni, e la pandemia caso mai lo ha estremizzato. Marito e moglie – o fidanzati conviventi – di norma tornano stanchi dal lavoro però con voglia intatta di stare insieme. Invece due coniugi che hanno dovuto spostare l’ufficio in casa – lui in pigiama e lei in vestaglia per tutto il giorno tranne che per le videochiamate coi colleghi – è già tanto se a fine serata non si azzuffano o dopo tre mesi non si lasciano per la perdita di indipendenza e privacy".

Diamo la colpa alla pandemia?

"Solo in parte".

La diamo agli italiani, allora?

"Ormai in molti campi l’Italia è un paese carente di motivazioni. Perché non ne offre. Anche il Cts, nel costante suggerimento di restrizioni sanitarie, ha indubbiamente contribuito al risultato. Ma le motivazioni alla procreazione – visto che di questo stiamo parlando – devono germogliare nelle persone, cioè negli italiani. I buchi del welfare vengono dopo, molto dopo".

Intende le mai realizzate politiche per la famiglia?

"Le mitiche ‘politiche attive’, locuzione ascoltata per la prima volta nel 1961 e che da allora mi procura l’orticaria, non sono il nucleo del problema. Lei conosce qualcuno che fa un figlio perché c’è l’asilo nido? Fa il figlio se ne sente il desiderio. Poi, se può mandarlo all’asilo nido, tanto meglio; e se il welfare gli rimborsa i pannolini, anche. Ma i piani della scelta e dei supporti stanno ad altezze diverse".

Infatti il 19% dei neonati è figlio di stranieri, la parte generalmente più debole della società e del mondo del lavoro.

"Succede perché nei Paesi di provenienza le culle sono piene. Tutti – come accadeva agli italiani della mia generazione – prendono in braccio i figli di fratelli, parenti, amici. La voglia di riprodursi nasce anche così, per stimolo diretto, a contatto con quell’energia. Perché i bambini fanno come sempre il loro lavoro – piangono, ridono, mangiano, crescono – ma se manca una dimensione sociale di condivisione, il problema della denatalità è destinato ad acuirsi per erosione culturale del contesto".

Non c’è anche un problema di fragilità complessiva del mondo giovanile e di scenari economici sempre più complessi?

"Un tempo si facevano figli anche perché servivano braccia nei campi e nelle fabbriche, e in questo non c’era niente di male, perché la dinamica riproduttiva aderiva al ciclo economico e della vita. Ora la progressiva automazione del mondo del lavoro cancella questa prospettiva a favore di calibrate risorse sempre più specializzate. Lo spaesamento esiste, ma non va drammatizzato. L’eccesso di razionalità uccide i sogni, vale anche per i potenziali genitori".

Nello svagato approccio al tema della natalità di quasi tutti i governi dal 1980 ad oggi, non pesano anche lontani echi del fascismo e timori di etichette emulative sgradite?

"Lo Stato, come pure la Chiesa, non deve entrare in camera da letto. La matassa è imbrogliata, ma il filo da tirare è in mano solo ai futuri genitori: se non sboccia una complicità intima, misteriosa e profonda tra uomo e donna, nessun disegno di legge, nessuna offerta di bonus, potrà mai provocare la scintilla".