Furino e gli altri Il senso di colpa è il vero dramma

Viviana

Ponchia

era un tempo in cui prediligeva gli empatici e gli altruisti. Condannava i sopravvissuti ai disastri aerei a ruminare sul privilegio e la condanna di essere stati risparmiati ma era un’afflizione passeggera, tutto sommato sana, legata alla conservazione della specie. Con il Covid il senso di colpa è diventato macchia sul cuore, nei casi più gravi paralisi. Beppe Furino piange la morte della moglie Irene e non riesce a darsi pace, perché non c’è più e perché è convinto di essere stato il suo untore.

Come lui tantissimi. Il mio amico Riccardo è sicuro di avere contagiato e ucciso la mamma. È risultato sempre negativo ma ha la certezza irrazionale di avere fatto da montacarichi al virus, di avere spinto in casa il cavallo di Troia. La mia amica Daniela, dura come una valchiria, è devastata perché la sua, di mamma, si è ammalata una settimana dopo essere entrata in una Rsa corteggiata per mesi. Si tormenta per essere stata frettolosa e negligente, non serve ripeterle che era vaccinata e la vita è una lotteria. E gli altri. Colpevoli di avere fatto quella cena a Natale, l’ultima per zia Teresa. Di avere assecondato una movida e chissà che strage. Di essersi tolti la mascherina in ascensore e poi quello del terzo è finito intubato. Oppure, la variante più perniciosa: se muoiono 400 persone al giorno che razza di persona sono io che continuo a stare bene? I coreani parlano di "corona blue" ma va bene anche paranoia. È la sottile mutazione antropologica che alla fine consegnerà al pianeta una specie diversa, vulnerabile come fu nelle caverne, oltre le quali il mondo era un muro di incognite. Ci sentiamo colpevoli perché non crediamo più nella medicina, perché facciamo preferenze fra i vaccini, perché siamo già stati vaccinati e perché non lo siamo ancora. Il trattamento sanitario obbligatorio che ci ha confinati fra quattro mura ha prodotto infelicità e pensieri contorti: se sono vivo, se sono sano, avrò sicuramente qualcosa di sbagliato.