Venerdì 12 Aprile 2024

Francesco Moser: "Io, contadino diventato campione. Il rimpianto? Aver fatto un solo Tour"

La leggenda del ciclismo: "Il dualismo con Saronni ha danneggiato entrambi, potevamo vincere di più"

Francesco Moser, classe 1951 (Ansa)

20130314 GARDOLO DI MEZZO (TRENTO) FRANCESCO MOSER NELLA SUA AZIENDA AGRICOLA. ALLA GUIDA DEL TRATTORE (ph. Dino Panato/ Ansa/Trento)

Asciutto e orgoglioso, sospeso tra la modestia del noi e l’io fiero di chi ai record ha dedicato il corpo e lo spirito. "Sono un contadino diventato campione", dice di sé Francesco Moser, il ciclista italiano più vincente di sempre. Che il contadino è tornato a farlo nella tenuta di Maso Villa Warth, sulle colline trentine, dove coltiva diverse varietà di uva assieme ai figli. E continua a inventare bici. Lui che le bici le ha fatte amare anche agli sportivi più distratti. Con le imprese, le innovazioni e la rivalità con Saronni. Una fiamma ancora accesa, si direbbe a sentirlo parlare.

Moser, lei è considerato l’ideatore del ciclismo moderno. Si ritrova in questa definizione?

"Beh, insomma", si schermisce. "Diciamo che per fare il record dell’ora del 1984 a Città del Messico abbiamo introdotto diversi cambiamenti: dall’aerodinamica alla preparazione. Comunque, i tempi erano maturi, anche altri sport avevano fatto passi avanti. A volte le innovazioni si vedono, altre no: il mio risultato di allora le rese evidenti a tutti".

Cosa la spinse a inseguire l’innovazione?

"Avevamo l’ambizione di battere il record dell’ora. Un’impresa difficile, bisognava attrezzarsi. Così, con l’Enervit abbiamo messo a punto il progetto".

In cosa consisteva?

"Lo sviluppo della bici, il perfezionamento dell’alimentazione e degli allenamenti. Per un mese sono stato a Città del Messico".

Come nacque la leggendaria bici del record?

"A fine ottobre dell’’83 non avevamo ancora niente in mano. La bici è nata un poco alla volta: siamo partiti da un telaio per giungere a quello che a sensazione ci sembrava il migliore, poi abbiamo sviluppato le ruote lenticolari e l’abbigliamento. Fino a quel momento, infatti, non si usavano i body per le cronometro".

Nel 1994, sei anni dopo il ritiro dal professionismo, provò a riprendersi il record dell’ora. Cosa significava per lei quel traguardo?

"Mi sono fatto influenzare un po’ da Obree, che aveva battuto il record con una bici strana. Ho provato a copiarla: aveva un gran impatto aerodinamico, ma dopo 10 o 15 minuti in quella posizione faticavo. Ad ogni modo, ho superato il mio record fermandomi a 200 metri da Obree. Con la posizione che si adotta adesso avrei battuto anche lui senza problemi".

La tecnologia ha tolto qualcosa al romanticismo?

"Il mondo è sempre andato avanti, le prime bici non avevano neanche la catena. Gli esseri umani hanno una forza limitata, bisogna trovare dei modi per farla rendere di più".

Lei racconta che in passato i ciclisti abusavano dei farmaci. Alla fine vinceva comunque il migliore?

"È difficile dirlo".

I record, l’Italia che si ferma per le sue gare, lo sponsor Gis. Era consapevole di incarnare anche un fenomeno di costume?

"Io pensavo solo a correre. Certo sapevo di essere visto da tutti".

Avvertiva la pressione?

"Cercavo di non farmi condizionare troppo. Se temi di sbagliare, rischi di non riuscire neanche a partire".

Un episodio, la competizione o l’attrito tra due caratteri forti: cosa c’era alla base della rivalità con Saronni?

"Un po’ tutto, in primis la competizione. Io ero il campione, lui veniva a portarmi via lo scettro. E poi avevamo due caratteri inconciliabili. Abbiamo provato anche a parlarci, a dire ‘invece di farci la guerra mettiamoci d’accordo’, ma non era possibile. Eravamo incompatibili".

Il dualismo aggiunge o sottrae in termini di popolarità?

"La nostra rivalità ha creato un’attenzione diversa per il ciclismo. In quel momento contava ciò che facevamo noi due, eravamo i più importanti".

Chissà l’entusiasmo degli altri corridori.

"Una volta ritardarono la partenza di una corsa di un quarto d’ora. Una sorta di sciopero per dire: si parla solo di Moser e Saronni e non di chi vince".

È servito a qualcosa?

"No, la nostra rivalità ha continuato ad animare le corse fino all’’84-’85. Poi basta. Anche perché Saronni ha vinto il suo ultimo Giro d’Italia nell’’83, mentre dopo, pur essendo nel pieno della maturità sportiva, non ha più ottenuto grandi risultati. Io invece ho fatto il record dell’ora, ho vinto il Giro, la Sanremo e altre competizioni".

Sta dicendo che Saronni soffriva particolarmente il confronto?

"Questo non lo so. Sta di fatto che è stato capace di tenermi testa fino all’’83, ma dopo ci è rimasto sotto".

E per lei la vostra sfida era una motivazione o un disturbo?

"Era una spinta per migliorare, io volevo stare davanti".

Ma senza quelle frizioni avreste potuto vincere di più?

"Il dualismo ha danneggiato entrambi. A volte la spuntavano corridori che valevano meno. Se fossimo stati superiori e non ci fossimo danneggiati a vicenda, avremmo vinto molto di più".

Qual è stato il momento di maggiore tensione fra voi?

"Ci siamo scontrati al Giro d’Italia del ’79. Saronni continuava a dire che l’avessero ‘disegnato’ per me. Poi però lo ha vinto lui".

Altri campioni del ciclismo sono nati come lei in Trentino. È un caso?

"Il ciclismo è uno sport duro, forse riesce meglio chi è cresciuto in una terra difficile. Ma adesso è cambiato tutto pure qui"

 Anche i suoi fratelli sono ex ciclisti. I suoi successi hanno creato malumori in famiglia?

"Assolutamente no, questa passione ci ha unito".

Chi è Francesco Moser per Francesco Moser?

"Un contadino diventato campione. Uno a cui la vita è cambiata dal giorno alla notte nel luglio del 1969, quando a 18 anni ho avuto la fortuna di cominciare a correre".

C’è stato un momento in cui ha capito di essere più forte degli altri?

"Nel ’75, il primo anno vero in cui ‘ho preso in mano la situazione’ dopo aver vinto qualche corsa importante".

Cosa prova quando ripensa alle vittorie?

"Cosa vuole che provi? Ormai sono abituato".

Ma qual è il pensiero che la inorgoglisce di più?

«L’idea di essere arrivato dove sono arrivato. E di poterlo ancora raccontare».

E il rimpianto?

"Ho corso un solo Tour de France, forse avrei potuto tornarci. Ma gli sponsor erano italiani e preferivano che andassi al Giro. Per uno che non era uno scalatore sarebbe stato faticoso fare due corse a tappe del genere".

Ha vinto molto e guadagnato parecchio, come mai è tornato nella sua terra a 'faticare'?

"Premesso che nel ciclismo di oggi guadagnerei molto di più, la mia è una passione. È una questione di radici".

A proposito di radici, ha sperato che suo figlio Ignazio seguisse le sue orme fino in fondo?

"Sembrava che avesse la stoffa, poi è cambiato fisicamente, è diventato più robusto. Poteva essere un corridore alla Cancellara, ma forse non aveva la mentalità giusta".

Che tipo di mentalità serve per correre?

"Non bisogna accontentarsi mai"

Come immagina il futuro?

"Cosa vuole che immagini? Ho 70 anni, cerco di divertirmi".