Martedì 16 Aprile 2024

Fotografare l’arte per fissare un’emozione

Viviana

Ponchia

Fotografare l’arte, che orrore. Perché lo facciamo, sempre che in un museo ce lo lascino fare? Perché non teniamo il telefonino in tasca lasciandoci coinvolgere dall’incanto del qui e ora? Tentativo di risposta qualunquista: perché ormai quell’aggeggio fa parte di noi come le pupille. L’americano Jeff Koons, il maestro della Pop Art vivente più pagato al mondo, ha fatto una ramanzina agli studenti del Polimoda di Firenze: deleghiamo al cellulare il piacere che dovrebbe essere solo degli occhi e ci priviamo del brivido della vita. Da che pulpito: non era proprio la Pop Art a ruotare attorno alla riproduzione esasperata, deformata, critica di qualsiasi oggetto? Perché loro sì e noi no? Secondo tentativo di risposta. Isabel Allende con modestia diceva che la macchina fotografica può rivelare segreti preclusi allo sguardo e possiamo confermarlo tutti: riviste con calma certe immagini sono una miniera di meraviglia di spavento. Ma c’è di più.

Cliccare all’impazzata agli Uffizi non è un modo di portarsi a casa una copia della Nascita di Venere, ma solo il tentativo di fissare l’emozione che opera e contesto scatenano. Sgangherata, analfabeta, amplificata dalla stanchezza, ma comunque nostra. Noi di fronte al genio. Uniti dal cellulare. Cento braccia alzate che all’Orsay cercano di inquadrare l’Origine del mondo di Courbet fanno sorridere ma sono un segno dei tempi: 50 anni fa la gente non spingeva in avanti l’obiettivo ma la faccia e forse era anche più comico.