Enrico Letta e Matteo Renzi, gemelli diversi. I Narciso e Boccadoro dei post-dc

Le differenze caratteriali alla base del dissidio politico: uno è istintivo e intuitivo, l’altro è razionale e riflessivo

Il passaggio della campanella tra Letta, premier uscente, e Renzi il 22 febbraio 2014

Il passaggio della campanella tra Letta, premier uscente, e Renzi il 22 febbraio 2014

Due provenienze politico-culturali simili, ma due mondi distinti. Due modi distinti. Di vivere la politica, le istituzioni, il potere. Alla fin fine, due caratteri diversi, opposti, prova che in politica come nella vita contano, sì, le idee ma soprattutto le disposizioni interiori che ognuno si ritrova senza sapere perché, come i gusti del gelato, quelle rotondità o asperità d’animo che ci rendono così dissimili a gente tanto uguale a noi per cultura, educazione e, appunto, idee. E i cui destini il gioco crudele della vita finisce spesso per ribaltare, così chi adesso dà le carte era chi ieri osservava l’altro smazzare. Si sta sereni un po’ per uno.

Entrambi figli del Granduca di Toscana e della stessa Balena bianca, Matteo Renzi ed Enrico Letta sono stati e sono un po’ i Narciso e Boccadoro della politica post-Dc, il negativo fotografico l’uno dell’altro. Stilemi viventi delle doppie inclinazioni presenti nell’animo di ciascuno, e tutti da ragazzi siamo stati un po’ Narciso e un po’ Boccadoro, prima che la natura svelasse a noi stessi chi siamo per davvero. Istintivo, intuitivo, veloce nell’analisi Renzi; riflessivo, calcolatore, perfezionista Letta, con tutte le derive che ognuno di questi aspetti comporta. Spaccone, guascone l’uno; educato, morigerato l’altro. Almeno in apparenza. Il personalista contro il capoclasse.

Ma è anche il rapporto con il potere che li ha separati dalla nascita e forse più li distingue. Renzi è uno che confida sempre e soprattutto su se stesso, ha un’idea e si batte come un leone per metterla in pratica prima possibile, domani o meglio subito. Letta è invece uno che tende ad aspettare, osserva, cerca l’accordo sempre e comunque.

Questo almeno prima di Parigi, l’ultima versione di Letta è già più renziana. In ogni caso la gru che rottama da una parte, il cacciavite dall’altra. Nella vecchia Dc, quella vera, uno sarebbe stato Fanfani, l’altro Moro, o Rumor. Il politico per Letta è un ingranaggio di un meccanismo complesso, e Letta che ha sempre sentito distintamente intorno a sé il peso dei poteri forti. Renzi è più sbrigativo nell’analisi, credendo in fondo in fondo che l’unico potere forte degno di questo nome sia stato e sia lui medesimo. O per lo meno la politica che rappresenta.

Hanno anche reagito in maniera diversa al successo e alla sconfitta. A Renzi il 40% alle europee ha indotto l’errore più grande, facendogli credere che tra lui che stava rifacendo l’Italia e Kohl che aveva appena rifatto l’Europa era solo questione di centimetri, fino al punto di legare su di sé il destino del referendum. Letta, quando è stato a palazzo Chigi, è rimasto con i piedi per terra, anche perché a quel 40% non c’era arrivato. Ma è forse la sconfitta che più li ha marcati. Letta ha salutato tutti ed è andato a insegnare a Parigi, Renzi è rimasto su piazza, non ha avuto il coraggio di staccare la spina. E chissà che adesso sotto sotto non rimpianga la scelta dell’amico-rivale, pensando che se davvero nel 2016 avesse lasciato come aveva detto tutti adesso sarebbero stati lì a richiamarlo come il salvatore della patria. Forse anche del Pd. Che bella soddisfazione sarebbe stata vedersi invocare da D’Alema.