Elezioni a stelle e strisce I repubblicani non sfondano Biden respira, Trump in affanno

I conservatori prendono la Camera, il Senato resta in bilico. Non c’è l’onda lunga temuta dai democratici. Il tycoon fallisce la rivincita, in Florida trionfa il suo grande rivale per la nomination alla Casa Bianca

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Cesare

De Carlo

Un grande vincitore, una grande sconfitta. E in mezzo un presidente che crede di avere recuperato popolarità e un ex presidente che crede di aver recuperato credibilità. Sullo sfondo l’America spaccata in due. Gli Stati sull’Atlantico e sul Pacifico si confermano blu e quelli dell’immenso heartland, il cuore profondo di questa nazione continente, si confermano rossi. Il blu sta per sinistra e il rosso per destra. Esattamente il contrario rispetto all’Italia e all’Europa.

DOPPIA VALENZA

Martedì, come si sa, si sono svolte le elezioni di medio termine. Accade sempre a metà del mandato presidenziale, vale a dire ogni due anni. E hanno una doppia valenza. Da un lato sono una specie di referendum sul presidente in carica. Dall’altro sono un’anticipazione della campagna per la Casa Bianca che si svolgerà dopo altri due anni. Il che vuol dire che gli americani sono sempre al voto. Basti pensare che un deputato dura in carica due anni. Dunque appena eletto deve preparare la rielezione. Così vollero i Padri Fondatori, estensori della prima Costituzione democratica, quando in Europa c’era ancora l’assolutismo monarchico, tredici anni prima della rivoluzione francese. Ebbene, dando un nome ai personaggi, il grande vincitore è un americano di origine italiana, Ron DeSantis, governatore della Florida, favorito per la nomination repubblicana nel 2024.

SCRUTINIO A RILENTO

La grande sconfitta è Nancy Pelosi, americana di origine italiana, che dovrà lasciare il posto di Speaker a Kevin McCarthy, repubblicano in una Camera presumibilmente strappata ai democratici. Dico presumibilmente perchè lo scrutinio va a rilento. Gli scarti in molti casi sono di poche migliaia di voti. Il presidente che tira un sospiro di sollievo è Joe Biden. I democratici hanno perso seggi alla Camera e forse – ma ancora non si sa – al Senato, come accade del resto in quasi tutte le elezioni di medio termine al partito della Casa Bianca. Ma meno del previsto. Merito dei candidati e non del loro presidente che anzi avevano tenuto a distanza. A Biden basterà per chiedere al partito una seconda nomination? L’appuntamento è fra due anni. Biden ne avrà 82 e certamente non godrà di una salute migliore, fisica e mentale. E’ un fatto comunque che ‘’under his watch’’, sotto il suo turno di guardia, la temuta onda rossa non c’è stata. Lo ha ammesso Lindsey Graham, leader repubblicano. L’economia, l’invasione migratoria, la criminalità non hanno pesato come i democratici temevano. E il tema dell’aborto si è fatto sentire.

L’IRA DI TRUMP

Infine l’ex presidente che spera tuttora di rientrare in quella Casa Bianca dalla quale fu sloggiato due anni fa, è Donald Trump. I suoi endorsement non hanno funzionato. Per esempio in Pennsylvania. Si era prodigato per Mehmet Oz il quale è stato sconfitto da un modesto candidato, John Fetterman, per di più convalescente da un ictus al cervello. Stessa cosa per il governatorato. John Shapiro si è affermato sull’italo-americano Doug Mastriano. Nessuna sorpresa. Dai sondaggi emerge una impopolarità seconda solo a quella di Joe Biden. Chiunque altro ne prenderebbe atto e si godrebbe il sole e l’oceano nella sua villa di Mar y Lago, in Florida. Non Donald Trump, che – rivelano fonti attendibili – ieri era furibondo. Ce l’aveva con tutti e in particolare – altra sorpresa – con l’astro nascente del partito repubblicano Ron DeSantis. Quando l’ha visto in televisione sul palco del Convention Center di Tampa, Florida, con la bellissima moglie Casey e i suoi tre bambini, celebrare il trionfale plebiscito di riconferma, non si è trattenuto. Ma chi crede di essere – ha urlato – l’ho creato io, se correrà per la Casa Bianca farò rivelazioni imbarazzanti.

Dunque non si rassegna. Riannuncerà la candidatura, forse già il 15 novembre. E questo è un problema. Un grosso problema per i repubblicani. Se correrà per la nomination farà di tutto per screditare il giovane rivale, 32 anni di meno, 44 contro 76. E la lotta fratricida potrebbe causare i danni che costarono nel 2012 la presidenza a Mitt Romney. Il Trump di allora si chiamava Newt Gingrich. Le sue critiche lasciarono il segno. Conquistò la nomination repubblicana ma sanguinante da cento coltellate. E il democratico Obama ebbe gioco facile.

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