Giovedì 18 Aprile 2024

È tornato il Draghi di un anno fa

Raffaele

Marmo

La massima andreottiana del "meglio tirare a campare che tirare le cuoia" non si addice a Mario Draghi. Il premier lo ha spiegato fin dall’inizio del suo mandato, ma ieri, di fronte al più significativo episodio di sfilacciamento della maggioranza in Parlamento, quello sui quattro voti contro il governo nel decreto "Milleproroghe", non ha esitato a spiegarlo ai maggiorenti dei partiti riuniti nel conclave della cabina di regia. E l’avviso ai naviganti suona come una sorta di ultimatum o di aut aut: o vi date una regolata o posso anche prendere cappello e andare via. Per capirci: il Draghi mediatore dell’autunno-inverno è da considerarsi archiviato. Il Presidente del Consiglio, dopo la conclusione della partita del Quirinale, ha ripreso il ruolo che ha avuto nella prima fase di governo: pochi compromessi e spinta sulle decisioni.

Il problema è che i capi-partito o taluni di loro non hanno fatto i conti con questo ritorno dell’ex numero uno della Bce nel ruolo che gli è più connaturato e congeniale: quello del decisore super partes, che, in fondo, come ha ricordato ieri, è la missione che ha concordato con il Capo dello Stato un anno fa: quella di fare le cose.

Ma, del resto, lo stesso Draghi ha fatto capire l’antifona nell’ultima conferenza stampa quando ha puntualizzato che non ha bisogno di chi gli trova un lavoro per il futuro: "Se voglio, posso trovarmelo anche da solo". Sicché quello di ieri è da iscriversi nella stessa logica di un premier che non ha intenzione di farsi cuocere a fuoco lento sulla graticola di partiti impegnati a issare le bandierine e a strappare un bonus per questa o quella lobby in vista della campagna elettorale.

Dunque: o si cambia metodo – avverte Draghi senza mezzi termini – oppure non c’è ragione di rimanere a Palazzo Chigi. Una minaccia più che un monito di cui faranno bene a tenere conto leader e capi-corrente, perché non è detto che via siano altre occasioni per farlo presente.